L’11 settembre in Libia
Che invece, di 11 settembre, di terrorismo antiamericano, ha parlato e parla. Nei due discorsi d’accettazione il tema della mancanza di sicurezza è stato infatti ripreso strumentalmente dallo sfidante repubblicano Romney che, paladino del governo israeliano d’estrema destra Netanyahu, soffia sul fuoco della guerra a tutti i costi contro l’Iran. Ma è stato anche il cavallo di battaglia di Obama che ha rivendicato, con l’eliminazione fisica di bin Laden, la sconfitta di Al Qaeda e del terrorismo antiamericano, la fine della guerra irachena e l’avvio del ritiro afghano, «per impegnare i fondi sull’occupazione».
Poi, all’improvviso, i fuochi e il sangue di Bengasi. Accesi nella tarda serata proprio dell’11 settembre. Con l’uccisione dell’ambasciatore americano in Libia, Chris Stevens. Una morte che, con quella di un funzionario e due marine, precipita ora sulle presidenziali e tra le braccia di Barack Obama. E che richiama tragicamente alla realtà gli Stati uniti e la leadership della Nato che hanno gestito la guerra «umanitaria» in Libia anche per conto dei paesi islamici Arabia saudita e Qatar, conclusasi nemmeno un anno fa con il linciaggio di Gheddafi. Una guerra che, sola, ha permesso la vittoria di un fronte eterogeneo. Dai riformatori ex gheddafiani filo-occidentali, che hanno vinto le recenti elezioni, fino agli integralisti islamici che per ora, solo qui, le hanno perse.
È avvenuto a Bengasi l’assalto della folla inferocita per reazione violenta all’arrivo in Medio Oriente della versione araba del «film» a dir poco provocatorio – una patacca porno – «L’innocenza dei musulmani», prodotto e girato da un «film-maker» israelo-americano in California. Benzina sul fuoco. Obama condanna, ma è troppo tardi. E con la folla inferocita è partito l’attacco militare, in grande stile, degli integralisti islamici. Bengasi è stata la culla della rivolta libica prima popolare poi, subito, armata – anche dai paesi occidentali e dagli Stati uniti – che da sempre si caratterizza per l’integralismo islamico, come dimostrò la protesta sanguinosa anti-italiana nel 2006 per la t-shirt del ministro leghista Calderoli. Da questa area sono partiti migliaia di integralisti islamici per la jihad nel mondo (in Bosnia, Afghanistan, Siria). Da qui provengono alcuni leader di Al Qaeda. Il cui ectoplasma ricompare sui fatti di Bengasi.
Impossibile non domandarsi a questo punto a cosa sia servita un anno fa quella esportazione di democrazia con una guerra di bombardamenti aerei, consiglieri militari e intelligence, alla luce dei roghi di Bengasi di questo nuovo 11 settembre. È probabile che le armi utilizzate per l’assalto al consolato Usa siano le stesse fornite dai «nostri» consiglieri militari agli insorti islamisti solo un anno fa. Ed è singolare il fatto che l’ambasciatore ucciso sia lo stesso inviato Usa di stanza a Bengasi nel lungo periodo della rivolta del 2011. E poi, non è forse l’algido ministro degli esteri Giulio Terzi in compagnia dei suoi omologhi atlantici, ad insistere perché finalmente la guerra civile in Siria si avvii ad una svolta che trasformi «Aleppo nella nuova Bengasi»? Che faranno adesso, bombarderanno Bengasi?
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