La Cina è diventata imperialista

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L’articolo di cui stiamo parlando è opera di Michael T. Klare, economista di scuola «Monthly Review», che scrive da decenni su varie riviste sulla politica estera americana, e di recente soprattutto sulla geopolitica del petrolio.
Com’è noto, il concetto di imperialismo si diffuse e conobbe le sue maggiori fortune negli ultimi decenni dell’800 nell’ambito della Seconda Internazionale (ma non solo), e fu allora e dopo oggetto di una discussione molto vivace, il cui frutto più noto è il testo «popolare» di Lenin del 1916, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo. Il concetto venne applicato per decenni soprattutto all’interno della sinistra mondiale per interpretare sia la storia delle conquiste coloniali europee sia gli sviluppi successivi, nell’epoca della decolonizzazione e della guerra fredda. In quest’ultimo periodo, più che dei declinanti imperialismi inglese, francese ecc., si parlò di quello americano, che per qualche tempo dopo il 1989 venne addirittura considerato l’unico e ultimo imperialismo sopravvissuto (il termine era stato applicato per qualche tempo anche all’Urss, solo esempio di un paese non capitalista).
Ma non si vuole fare qui la storia, assai complessa del concetto. Diciamo solo che con l’andare del tempo il termine era stato poco per volta sostituito da molti altri, che si sforzavano di rendere la crescente complicazione del mondo reale: lo strapotere delle multinazionali, la geopolitica, Nord e Sud e così via. Le ragioni di questo declino furono probabilmente più d’una. Innanzitutto prevaleva la consapevolezza che il termine diventava sempre più uno slogan e sempre meno una categoria utile all’analisi della politica internazionale. Inoltre, di quest’ultima si veniva progressivamente scoprendo che a muoverla non era più solo l’economia, come era parso, e con buone ragioni, ai tempi di Lenin, ma anche una serie di altri fattori non meno importanti come quelli religiosi ed etnici, linguistici e geografici (o geopolitici). Basti pensare al ruolo svolto nelle trasformazioni mondiali degli ultimi decenni da due fenomeni storici molto diversi fra loro come l’avvento di un papa polacco e l’ascesa dell’islam politico.
FAME DI ENERGIA
Ma veniamo alle argomentazioni di Klare. L’autore parte da una serie di dati che mostrano come la vertiginosa crescita economica della Cina abbia bisogno di essere sostenuta da altrettanto vertiginosi aumenti delle forniture di energia e di materie prime in genere. Per esempio, il consumo di petrolio è salito in dieci anni (2000-2010) da 4,8 milioni a 9,1 milioni di barili al giorno; le importazioni, da 1,5 milioni a 5 milioni di barili al giorno. Passando al gas naturale, nel 2000 la Cina ne esportava 3,3 miliardi di metri cubi; nel 2010 ne ha importati 12,2 miliardi. Dati analoghi si possono trovare se ci rivolgiamo a minerali (ferro, ramo, cobalto, cromo, ecc.), indispensabili sia all’elettronica sia alla fabbricazione di leghe ad alta resistenza. Da questo bisogno crescente di nutrire una produzione sempre più affamata di energia e materie prime nasce l’espansione cinese. Attraverso contratti di compartecipazione di società  statali o private con i maggiori produttori mondiali di petrolio, investimenti nello sfruttamento di miniere, costruzioni di infrastrutture, ecc. i cinesi sono sempre più presenti in ogni parte della terra, ma soprattutto nei paesi africani. A spingerne l’attività  non sono soltanto i bisogni attuali, già  noti, ma quelli prevedibili per un futuro di medio e lungo periodo.
Comprensibilmente i Paesi più interessanti per la Cina sono quelli più poveri (ma ricchi di potenzialità  nel settore delle materie prime) del Sud del mondo. Paesi, quindi, che un po’ eufemisticamente vengono chiamati «in via di sviluppo», come la stessa Cina ama chiamare se stessa, sottolineando, non senza contraddizioni, la compresenza di elementi di arretratezza con il suo affermarsi come grande potenza mondiale. Ufficialmente, la Cina continua a seguire (e a darle particolare rilievo, soprattutto nei rapporti con i paesi africani, asiatici e latino-americani) la politica che venne elaborata già  ai tempi di Bandung, e che consisteva essenzialmente nell’«uguaglianza e rispetto reciproco», nella «non ingerenza» negli affari interni degli altri Paesi e nella volontà  di contribuire allo sviluppo dei paesi arretrati.
In realtà , quando i cinesi firmano un contratto di cooperazione con un paese africano, e su questa base si mettono a costruire raffinerie, porti, strade e ponti, oleodotti, ferrovie o altre infrastrutture, nella maggior parte dei casi si portano dietro l’intera manodopera (in molti casi carcerati cui si promette una liberazione anticipata), che viene ospitata in villaggi chiusi. Quasi mai ci sono rapporti fra i cinesi e la gente del luogo. Quando invece la manodopera è costituita da africani, i rapporti fra gli operai e i loro dirigenti cinesi diventano spesso molto difficili: si è assistito in molti casi a proteste violente, rapimenti, anche uccisioni. E soprattutto, molti leader africani hanno cominciato ad esprimere la propria delusione per un rapporto che è paritario, e utile a entrambi, solo sulla carta. Klare riporta un giudizio recente del Presidente sudafricano Jacob Zuma secondo cui l’impegno della Cina per lo sviluppo dell’Africa è consistito soprattutto nel «rifornirsi di materie prime»: una situazione da lui giudicata «insostenibile nel lungo termine».
LA «NON-INGERENZA»
Zuma non è il solo leader africano a esprimere questo disagio, che smentisce una delle linee-guida ufficiali della politica estera cinese. Ma c’è dell’altro. Là  dove funziona, la non ingerenza e il rispetto dell’autonomia interna dei singoli paesi fa sì che, in nome dei propri interessi economici, i cinesi si facciano campioni dei più efferati governi e regimi africani, dal Sudan allo Zimbabwe, così come proteggono i governi di Iran e Siria all’Onu. Ora, si chiede Klare, se mettiamo insieme tutti questi fenomeni (e molti altri se ne potrebbero aggiungere), non ci troviamo di fronte a una replica delle caratteristiche di quello che venne a lungo chiamato (e lo è spesso tuttora) l’imperialismo americano? Sempre Klare racconta che il presidente F. D. Roosevelt (1933-1945) era profondamente avverso a imperialismo e feudalesimo, e quindi anche alla cultura e al regime politico dell’Arabia Saudita. Ma quando gli dissero, verso la fine della seconda guerra mondiale, che il futuro degli Stati Uniti sarebbe dipeso dalle importazioni di petrolio da quel paese, non esitò a stringere un accordo con il suo sovrano. Da allora, Washington divenne il protettore di regimi di destra, reazionari e autoritari, che però, oltre ad essere buoni fornitori di materie prime, erano anche fedeli alleati dell’occidente nella guerra fredda.
Klare è piuttosto prudente nella risposta alla domanda da cui era partito. Ricorre a una sorta di understatement: i cinesi sarebbero ben felici (lo sarebbero stati, ai loro tempi, anche gli americani) se riuscissero a conciliare le proprie esigenze economiche con quelle dello sviluppo dei loro partner arretrati. Klare auspica che questo avvenga quanto prima, ma così non è, per ora.
Il discorso sulla applicabilità  alla Cina del termine «imperialismo» avrebbe bisogno di molti altri sviluppi, per esempio sul piano culturale, dove l’estendersi a macchia d’olio degli Istituti Confucio (oggi più di 350 in più di 100 paesi) sembra presentare aspetti non troppo diversi da quelli dell’Usis, e dove l’impegno pubblicitario, propagandistico, giornalistico della Cina nel mondo si è fatto negli ultimi anni sempre più insistente. Resta comunque, a quanto pare, un certo pudore da parte delle sinistre (ma non solo: business is business…) a usare il termine imperialismo per un Paese che si proclama tuttora marxista-leninista (però anche confuciano, a economia di mercato e molte altre cose ancora). Può darsi che si tratti di un problema puramente nominalistico, ma forse vale la pena ugualmente di pensarci, superando i tabù. È bene essere grati a Michael T. Klare per avercelo ricordato.


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