La costruzione europea, «pensando» alla Bosnia
«Mai la convivenza pacifica, armoniosa, costruttiva, è acquisita per sempre. Ci vuole una manutenzione psicologica e politica continua, importante in questo momento in Europa». Sono le prime parole pronunciate lunedì a Sarajevo dal Presidente del Consiglio Mario Monti, all’uscita dall’incontro con il suo omologo bosniaco Vejkoslav Bevanda. L’incontro istituzionale di Monti è avvenuto in occasione della sua partecipazione all’apertura dell’evento internazionale di Preghiera per la Pace, organizzata a Sarajevo dal 9 all’11 settembre dalla Comunità Sant’Egidio.
Un evento arrivato alla 26ima edizione e voluto quest’anno in Bosnia, nel ventennale dell’inizio dell’assedio della capitale. Tre giorni di dibattito, organizzati in 30 panel, a cui hanno partecipato 350 capi religiosi di tutto il mondo, esponenti del mondo politico e culturale internazionale – tra i quali il presidente del Consiglio europeo Herman Von Rompuy – diversi rappresentanti di governo e centinaia di esponenti della società civile.
Convivenza, dialogo e intreccio tra diversità . Questo il filo conduttore degli interventi nell’incontro di Sarajevo. In apertura le parole di Andrea Riccardi, fondatore nel 1968 della Comunità Sant’Egidio e attuale ministro italiano alla Cooperazione e all’Integrazione, sono state chiare: «Da tempo si proclama che tutti gli uomini sono uguali. Ma se siamo tutti uguali, perché è difficile vivere insieme? Vivere tra diversi non è un problema circoscritto a questa bella terra. E’ un problema universale».
Dalla città simbolo ed esempio di convivenza, dilaniata da quattro anni di assedio e che oggi resiste a fatica alle divisioni etno-nazionali create dal conflitto armato, i rappresentanti locali delle comunità religiose hanno ricordato la riflessione sulle guerre ex-jugoslave come punto da cui ripartire. «I popoli della Bosnia Erzegovina e dei Paesi vicini hanno vissuto grandi sofferenze e visto molti caduti. Questo deve essere un ammonimento per il futuro. Un futuro che chiede a tutti noi volontà di pace, accoglienza e rispetto reciproco, perdono e consapevolezza del bisogno di vivere in una grande comunità di persone», ha dichiarato il Patriarca della Chiesa Serba ortodossa, Irinej.
Il Gran Mufti di Bosnia Erzegovina, Mustafa Ceric, ha sottolineato che le vittime di Sarajevo meritano il rispetto e le condoglianze di tutti i presenti. «Ma più di questo, meritano il nostro sincero impegno per la verità , la giustizia, la pace e la riconciliazione, (…) e che faremo tutto il possibile affinché mai più capiti a qualcuno ciò che è successo qui». Il cardinale Vinko Puljic, Arcivescovo di Vrhbosna-Sarajevo, ha parlato anche di responsabilità : «Sarajevo città della pace e della convivenza, nell’uguaglianza. Perché non è così? Dovrebbero porsi questa domanda tutti i responsabili, delle comunità locali e delle comunità internazionali. Le persone semplici desiderano vivere insieme, vedere rispettata la loro dignità e difesi i loro diritti». Purtroppo, nessuno dei capi religiosi che abbia ricordato le responsabilità dirette delle rispettive religioni nel disastro della guerra balcanica.
Di difesa della dignità e dei diritti dei cittadini bosniaci può, a buon diritto, parlare invece Jacob Finci, presidente della Comunità ebraica che qui si è sempre distinta nell’aiuto ai più deboli e contro le logiche etniche. È infatti conosciuto per il caso «Sejdic-Finci», ricorso accolto nel 2009 dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che ha decretato che la Costituzione della Bosnia è da riformare perché incompatibile con la Convenzione Europea per i Diritti Umani. L’attuale Costituzione bosniaca, rielaborata dopo la redazione a Dayton nel 1995, riserva infatti alcune funzioni pubbliche solo ai rappresentanti dei tre popoli costitutivi (croato, serbo e bosgnacco – bosniaco-musulmano) escludendo gli «altri». Ha dichiarato Finci a Osservatorio Balcani e Caucaso: «Viviamo insieme su questa angolo di terra da 500 anni e nessuno deve insegnarci cos’è la convivenza. Abbiamo un Paese al margine della povertà ma che nasconde molte ricchezze. Dobbiamo lavorare tutti perché si trasformino in realtà e diventino proprietà di tutti i cittadini».
Sfide difficili e necessarie. Per la Bosnia Erzegovina, che a seguito delle elezioni del 2010 ci ha messo 15 mesi a formare il governo – poi andato in crisi dopo solo 5 mesi – come per l’Europa. Un’Europa che, secondo lo scrittore Karahasan intervistato da Obc, «sta cercando se stessa e può trovarsi solo se richiama l’attenzione su come Sarajevo sia un modello di questa unione. Molti politici nell’Unione non hanno voluto immischiarsi con la questione bosniaca (…) perché avevano paura di ciò che a loro viene chiesto come compito, cioè l’idea dell’Europa unita». Parole che assumono un peso notevole. Perché pronunciate in una città devastata da più di 1.000 giorni di assedio che ha provocato 11.541 morti. E perché echeggiano in un teatro europeo di grande crisi, non solo economica, dove i cittadini si sentono sempre più semplici spettatori.
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