La metamorfosi del professor Monti così i tecnici si affezionano alla politica

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ECCOTELO là . Annuncio a Washington, in lingua inglese, secondo i codici del più ordinario, prevedibile e fulminante svolgersi del potere da vent’anni a questa parte. Per cui, al dunque, l’irreversibilità  dei «tecnici» consiste nel loro inesorabile trasformarsi in «politici».
Le virgolette, in questo caso, servirebbero ad attenuare la pretesa inconciliabilità  fra le due categorie, essendo precisamente il professor Monti un classico tecnico posto alla guida di un governo politico, come lui stesso fin dal primo giorno non ha mai mancato di far presente; e quindi configurandosi a tutti gli effetti come un presidente tecnico e insieme politico, anzi un presidente tecnico-politico.
Detto questo, converrà  ricordare che nell’ottobre del 1995, anche lui in inglese, anche lui durante un viaggio presidenziale in America, al Council of Foreign Relations, Lamberto Dini ebbe a chiarire, di non essere un politico, «I was not and am not a career politician», e però, se le circostanze glielo imponessero, beh, insomma, in quel caso…
Agli eventuali appassionati della cospirazione si segnala che in quel frangente fra i più interessati al futuro di Dini, del suo governo e in definitiva dell’Italia, che ancora allora veniva da un fallimentare governo Berlusconi) c’era il finanziere George Soros, con cui l’altra sera il premier Monti è andato a cena a New York.
Come si sa, di lì a poco il tecnico Dini fondò un partito, «Rinnovamento italiano», partecipando alla vincente alleanza di centrosinistra. Che in seguito contribuì ad affossare, ritornando dopo parecchie finte con Berlusconi. Adesso dovrebbe stare con il Terzo Polo. La sua complessa, magari pure incompiuta traiettoria indica comunque un destino assai più manovriero di quello di altri tecnici a vario titolo e con diverso esito chiamati a gestire l’emergenza e poi regolarmente «prestati» alla politica. Uno è Giuliano Amato, un altro è Carlo Azeglio Ciampi e un terzo si può considerare, almeno all’inizio della sua carriera di governo (1978, ministro dell’Industria nell’Andreotti quater), Romano Prodi. Se il loro obiettivo successo li ha resi, più che semplici politici, autentici uomini di Stato, da un altro punto di vista la loro esperienza mette fine al triste usa-e-getta dei tecnici della Prima Repubblica, allorché i vari Bonifacio, Lombardini, Stammati, Guido Carli e tanti altri venivano reclutati, spremuti e e non di rado poi anche bruscamente messi da parte perché nel frattempo i partiti erano pronti a riprendersi il loro ruolo e i loro benefici di consenso.
Pure allora c’era una certa quota di non-detto riguardo a queste figure di volta in volta invocate e contestate come risorsa, pretesto, necessità , frottola, scorciatoia, mito salvifico, illusione ottica, foglia di fico e cintura di castità  della partitocrazia.
Ma l’esperienza di Monti e dei suoi tecnici segna un’obiettiva discontinuità  rispetto al passato prossimo e a quello remoto.
Così, anche nell’era dell’osservazione iper-personalizzata suona greve e forse anche ingeneroso
scrivere che il professore di Varese, come tutti gli altri, ci ha preso gusto. Eppure, nonostante sia stata espressa in forma ipotetica e perfino in un’altra lingua, occorre riconoscere che la disponibilità  di Monti al bis ha il sapore del miele.
Non solo, ma in qualche modo acquistano oggi una luce diversa tanti piccoli e fino a ieri trascurabili segni: comparse in tv, foto-story patinate, smentite narrative su spese di Capodanno e alloggi estivi, paradossale sfoggio di sobrietà , noticine postate sul sito del governo, la più incredibile delle quali resta quella di una bimba di tre anni, Lidia, su «Nonno Mario, quello che dice le cose giuste sul futuro»; oltre a un certo insistere sulla presenza di un cuore che batte sotto l’altera grisaglia del tecnico.
Il quale tecnico, come si capisce meglio oggi, non era esattamente «di passaggio», come detto e ridetto e ribadito e riconfermato per dieci mesi. A trattenere Monti, se mai, sarà  tutto fuorché il suo desiderio di potere e la sua vanità . È il futuro, è l’Italia, è la percezione che ne deve avere all’estero. Gli argomenti non mancheranno. La doppia crisi, quella economica e quella che sta spazzando via il sistema dei partiti. La politica, dopo tutto, è anche tecnica – e il presidente tecnocrate qualcosina di più a Palazzo Chigi deve averla anche imparata.


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