Lingotto sempre più americano nelle fabbriche europee si taglia e salgono i fondi di Wall Street

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“LA FIAT resterà  in Italia” è una promessa scritta sull’acqua. Solo un governo che non vuole sentire e un sindacato che non vuole vedere possono credere all’impegno generico assunto da Sergio Marchionne a Palazzo Chigi. Il “Lingotto americano” è già  oggi una realtà . E lo sarà  sempre di più nei prossimi mesi.
Per capirlo, non serve un’esegesi maliziosa delle parole pensate e scritte nel comunicato di sabato scorso. «Fiat vuole riorientare il modello di business in una logica che privilegi le esportazioni, in particolare extra-europee »: questo passaggio dice già  molto. Ma non dice ancora tutto. Il resto che c’è da sapere, e che conferma il graduale ma ineluttabile abbandono delle radici italiane del gruppo, lo dicono i fatti di questi ultime settimane, e soprattutto i numeri dei prossimi mesi.
Tra i fatti, ce n’è uno che testimonia concretamente, e per certi versi anche simbolicamente, il processo di “americanizzazione” di quella che fu la grande Fabbrica Italiana di Automobili. Un fatto che è passato inosservato, ma che non è sfuggito alla Consob, dove le vicende Fiat vengono seguite con particolare attenzione già  dall’ottobre 2011, quando i vertici furono sollecitati da Giuseppe Vegas a chiarire l’evoluzione del piano industriale ai sensi dell’articolo 114 del Testo Unico della finanza. Tra la fine di agosto e l’inizio di settembre, proprio negli stessi giorni in cui l’amministratore delegato comunicava al Paese e ai suoi stakeholders il definitivo tramonto del faraonico piano “Fabbrica Italia” da 20 miliardi, due grandi fondi di investimento americani hanno rafforzato la propria presenza azionaria nel capitale Fiat.
La prima operazione è stata comunicata il 30 agosto alla Vigilanza di Borsa: il Vanguard International Growth Fund ha acquistato una quota del 2,006% di Fiat Spa. Se si sommano i pacchetti di Vanguard a quelli già  posseduti da Baillie Gifford, Capital Research e Blackrock, i fondi esteri possiedono ormai il 10% del capitale della casa madre. La seconda operazione è stata notificata all’Authority di Piazza Affari il 7 settembre: l’Harris Associates Lp, grande fondo d’investimenti di Chicago che gestisce asset per 75 miliardi di dollari, ha rilevato il 5,027% di Fiat Industrial Spa. Se si sommano i pacchetti di Harris a quelli già  posseduti da Fmr Llc, dal Fondo sovrano di Singapore e da Blackrock, i fondi esteri possiedono ormai oltre il 13% di Fiat Industrial. Movimenti giudicati “interessanti” in Consob. Non perché siano di per sé negativi: è anzi importante che grandi istituzioni finanziarie internazionali investano sul “brand” Fiat-Chrysler. Ma è il segnale di un definitivo “cambio di fase”, che acquista ancor più significato perché cade proprio nei giorni in cui Marchionne archivia per sempre la pratica di “Fabbrica Italia”.
La Fiat è ormai una multinazionale, con un cuore e un portafoglio ormai irreversibilmente trasferiti oltre-oceano. Il capo-azienda può ripetere all’infinito che nulla è ancora perduto e che la “testa” del gruppo resterà  qui, nonostante la “liquidazione” del piano miracolistico fatto bere nel 2010 a un governo inesistente (quello di Berlusconi, il cui unico obiettivo era tutelare gli affari del Cavaliere) e a un sindacato compiacente (Cisl e Uil, il cui unico assillo era isolare la nemica Cgil). Marchionne e John Elkann, di fronte a Monti e ai suoi ministri, possono ribadire fino alla noia che gli sforzi dei prossimi mesi saranno comunque orientati a valorizzare «ricerca e innovazione, peculiarità  delle strutture italiane». Non è quello che sta accadendo. E non è quello che accadrà . In questo caso, sono i numeri a parlare. Soprattutto quelli del disastro produttivo dei quattro stabilimenti italiani, che dicono molto di più delle cifre sulla crisi globale del settore e della perdita di quote di mercato Fiat in Europa.
Sono numeri che arrivano dallo stesso Lingotto, e che sono sintetizzati nei “Piani operativi 09”, messi a punto dal management del gruppo proprio ai primi di settembre. Marchionne ne ha snocciolato qualcuno, anche nell’incontro a Palazzo Chigi di sabato. Ma leggerli tutti, nel documento previsionale riservato e aggiornato pochi giorni fa dai tecnici del gruppo (pubblicato senza smentite dal sito Linkiesta),
fa un effetto disarmante. Nel 2009 gli impianti italiani di Mirafiori, Melfi, Pomigliano, Cassino e Termini Imerese (allora ancora in funzione), più quello polacco di Tichy e quello serbo di Kragujevac, avevano sfornato più di 1,24 milioni di automobili. A gennaio primo segnale inquietante: la stima era stata rivista in ribasso, a 1.027.900 vetture. Ora siamo all’allarme rosso. Alla fine di questo rovinoso 2012 da queste fabbriche usciranno quasi la metà  delle vetture rispetto a tre anni fa: solo 734 mila. E l’encefalogramma resterà  sostanzialmente piatto anche nel 2013, quando le previsioni parlano di una produzione di circa 826 mila vetture.
Nessuno degli stabilimenti Fiat si salva da questa disfatta. Mirafiori, che nel 2009 produceva 172 mila auto, a fine anno ne sfornerà  se va bene 44.200. E nel 2013, per
l’impianto che fu il fiore all’occhiello italiano e l’orgoglio della sapienza industriale di Torino, è notte fonda: i Piani operativi non prevedono altro se non 29.700 esemplari della MiTo. Dovrebbero partire la 500X e la 500L Long, ma nessuno ne sa niente. Melfi, che doveva produrre 223.700 vetture, ne confezionerà  meno di 150 mila: dovrebbero diventare 157.500 nel 2013, ma non c’è altro oltre la produzione della Grande Punto Serie 6. Pomigliano, “laboratorio” delle nuove relazioni industriali forgiate nel fuoco degli accordi separati che piacciono a Bonanni e Angeletti, doveva essere la culla della Nuova Panda, con 202.700 modelli nel 2012. Saranno 119.200, che lieviterebbero a 177.500 nel 2013, a condizione che si sblocchino gli intoppi sulle linee di produzione. Cassino, un tempo gioiello dell’automazione Fiat, segue il trend in picchiata: 102.300 vetture previste a fine 2012 (contro una stima iniziale di 139.800) e 111.700 nel 2013.
Nei due impianti europei, sussidiati dai governi di Polonia e di Serbia, le cose non vanno meglio. Da Tichy usciranno 347 mila auto nel 2012 (erano 588 mila nel 2009 e dovevano essere 389.100 secondo le stime di gennaio) e appena 262 mila nel 2013. Da Kragujevac, “fucina” della nuova 500L, usciranno quest’anno 27.300 modelli (contro gli oltre 33 mila previsti), e 138 mila l’anno prossimo (sempre che partano regolarmente le produzioni della 500L Usa e della 500L Long). Queste cifre pessime sull’andamento dei due siti produttivi esteri finanziati dai Paesi in cui sono collocati fanno giustizia della reazione stizzita di Marchionne, che tre giorni fa, a un Corrado Passera che da San Paolo chiedeva perché la Fiat è leader in America del Sud e solo la produzione italiana va così male, rispondeva «al ministro non sarà  sfuggito che il governo brasiliano è particolarmente attento alle problematiche dell’industria dell’auto». Per lo stabilimento nello Stato di Pernambuco, in effetti, la Fiat riceverà  finanziamenti fino all’85% su un investimento complessivo di 2,3 milioni di euro.
Il ragionamento è capzioso, quasi ricattatorio. A dispetto delle smentite, il Lingotto sembra ancora incline a battere cassa (integrazione) e a pretendere sgravi fiscali “dedicati” all’export. E’ sempre facile fare impresa, quando paga Pantalone. Ma al di là  di questo, la paradossale logica neo-statalista dell’altrimenti ultra-liberista Marchionne è smentita proprio dai risultati di Tichy (foraggiato generosamente dal governo di Varsavia) e da quello di Kragujevac (appena rifinanziato dalla Bei con 500 milioni di euro). Non solo: l’ultimo “bailout” industriale concesso da un governo italiano (non a caso quello di Giulio Andreotti) risale ai primi Anni Novanta, e si riferisce alla costruzione del polo Fiat a Melfi. Ebbene, anche in questo caso i pessimi risultati previsionali indicati nei “Piani operativi 09” per lo stabilimento in Basilicata dimostrano che le risorse pubbliche servono a poco, se manca un solido disegno industriale e un forte impegno strategico sull’innovazione di prodotto, oltre che di processo.
Oggi, è esattamente questo che manca alla Fiat. Dal 1977 ha drenato dal contribuente italiano 7,6 miliardi di sussidi e ha “restituito” 6,2 miliardi di nuovi investimenti. Checchè ne dica il suo ammini-stratore delegato, il Lingotto è ancora in debito con l’Italia. A saldarlo non basterà  una promessa improbabile, basata su una ripresa ipotetica. Il 2014 è ancora molto lontano. Solo l’America è sempre più vicina.


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