L’ULTIMA CLASSE

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Guy Standing, che insegna “Sicurezza economica” all’università  di Bath in Inghilterra, ha collaborato a lungo con l’Organizzazione internazionale del Lavoro e vi ha ricoperto incarichi di primo piano. In tale ruolo ha pubblicato vari saggi e rapporti che hanno al centro l’idea di “lavoro dignitoso”. Inoltre ha messo in piedi una rete internazionale di ricercatori che studiano sul campo come esso sia presente oppure no in aziende di diversi settori. La stessa idea permea ogni pagina di questo suo ultimo libro. Che si intitola Precari. La nuova classe esplosiva, e che esce per il Mulino (pagg. 304, 19 euro).
Il lavoro viene considerato dignitoso quando offre al lavoratore una serie di sicurezze fondamentali per poter condurre un’esistenza che consenta il pieno sviluppo della persona e dei suoi rapporti sociali. Sono indicate in dettaglio nel libro (a pagina 27). La precarietà , intesa soprattutto come una prolungata sequenza di lavori di breve durata, non offre nessuna di tali sicurezze, e dove esse esistono le distrugge.
La prima sicurezza che il lavoro precario viene a negare è ovviamente quella del reddito. Pur nei casi in cui un singolo periodo di occupazione sia ben retribuito, è raro che un precario arrivi a mettere insieme più di otto o nove mensilità  l’anno. Ma la sua condizione non è gravata soltanto dell’ammontare del reddito. Ciò che rabbuia la vita dei precari è il non sapere se, dove, quando troveranno un’altra fonte di reddito, una volta scaduto il contratto in essere. Altre pesanti insicurezze derivano dal potere arbitrario di cui un datore di lavoro dispone nei confronti del precario in tema di costi che questi deve sopportare e regole che deve seguire; di possibilità  di mantenere il proprio ruolo professionale; di potersi esprimere per mezzo di una rappresentanza collettiva sul mercato del lavoro. Per tacere della protezione dai rischi di incidente e malattia, e della sicurezza di ricevere una formazione adeguata. Nessuna impresa investe volentieri un euro in tali ambiti, quando sa che la lavoratrice che dovrebbe esserne oggetto se ne andrà  presto perché ha un contratto in scadenza.
I precari costituiscono ormai una grossa minoranza dei lavoratori nel mondo, e potrebbero diventare tra non molto la maggioranza. Sono il prodotto della globalizzazione, del conflitto che è stato scientemente provocato tra i lavoratori dei paesi sviluppati con salari da 25 euro l’ora e quelli dei paesi emergenti che ne guadagnano uno e fanno orari doppi. Nonché delle forti pressioni che i politici come le imprese hanno esercitato per rendere più flessibile l’occupazione, dando a intendere sin dagli anni Ottanta che in tal modo sarebbe cresciuta.
Formano una classe in sé, i precari, in quanto condividono tutte le insicurezze sopra ricordate; tuttavia, sottolinea l’autore, sono lungi dal formare
una classe per sé, ossia una collettività  consapevole della propria situazione e capace di intraprendere adeguate iniziative politiche al fine di migliorarla. Rappresentano una classe pericolosa (come forse si doveva tradurre nel titolo l’originale dangerous) per diversi motivi. Essendo attraversata da sentimenti di frustrazione, rabbia, disperazione, essa tende a scaricarli sugli immigrati, le minoranze etniche, o coloro che ancora godono, forse non per molto, di un’occupazione stabile.
Inoltre, essendo pressoché priva sia di un’efficace rappresentanza sindacale, sia di un solido riferimento politico,
e meno che mai di una qualche guida, il suo comportamento politico ed elettorale rischia di oscillare tra il consenso per l’ultimo pifferaio di Hamelin che capiti sulla scena e il voto per le formazioni di estrema destra che promettono soluzioni facili e immediate per problemi terribilmente difficili. Il che potrebbe spiegare come mai vi siano almeno una decina di paesi, in Europa, in cui i voti per partiti nella sostanza fascistizzanti oscillano tra il 10 e il 20 per cento.
V’è però un’altra idea degna d’attenzione che sottende il libro di Standing. Tra le fila dei precari ha poca presa la convinzione che l’uscita dalla precarietà  potrebbe essere un ritorno al lavoro che offre sì stabilità  di occupazione di reddito, e però consiste nello svolgere ogni ora, giorno, settimana, per anni e anni, la stessa stupida mansione che si impara in due giorni e si svolge, sotto il controllo implacabile di un capo o di un computer, in due minuti. Per essere poi ripetuta sempre uguale. Che è il tipo di lavoro imposto dalle imprese a milioni di persone in tutti i paesi sviluppati, e con ancora maggiore durezza a decine di milioni di altre nei paesi emergenti, in forza delle moderne tecniche organizzative.
Perciò, se a qualcuno venisse in mente di proporre alla classe sociale dei precari di guardare a un futuro diverso, e ad organizzarsi politicamente per realizzarlo, dovrebbe provare a disegnare con loro un lavoro che oltre a garantire le sicurezze che lo rendono dignitoso, permetta di esercitare mentre lo si svolge
intelligenza, autonomia, immaginazione, libertà  di muoversi e di inventare. Un tema di cui si discuteva molto, ricorda in questo caso non Standing ma chi scrive, forse mezzo secolo fa, prima che la ristrutturazione produttiva e l’ideologia della flessibilità  distruggessero, insieme con la stabilità  dell’occupazione, anche la capacità  di pensare il lavoro. Questo libro, oltre che una denuncia dei danni sociali della precarietà , è anche un invito a ritrovare tale capacità  come programma culturale e politico.


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