Mali, una esplosiva crisi nascosta

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È quindi scappato per raggiungere Algeria, Libia e Italia, in cerca di un territorio sicuro. La sua storia, come quella di milioni di abitanti del Sahel, rispecchia quella che Marco Massoni descrive come “la reciproca incommensurabilità  antropologica delle popolazioni dell’African belt, la fascia subsahriana del continente, costrette da sempre a un incontro/scontro culturale”. Le antiche popolazioni berbere, fra cui i così detti “tuareg” della zona desertica, gli arabi (come i Mauri) e i negro-africani, spiega lo studioso del Centro Alti Studi per la Difesa, formano “un triangolo identitario forte che attraversa numerosi stati e soggiace all’attuale conflitto nel nord del Mali”. Come molti connazionali, Idriss ha visto inizialmente respinta la domanda di asilo. La situazione si è pero ribaltata dopo l’esplosione di violenza che ha attraversato il paese dal gennaio 2012. Nel luglio 2012 la Commissione nazionale per il diritto d’asilo diffonde una circolare che chiede di riesaminare le richieste d’asilo dei cittadini maliani, concedendo a tutti la “protezione sussidiaria”. “Che la situazione in Mali fosse potenzialmente esplosiva – dice Massoni – era evidente da tempo”. Come è evidente – continua – “la strategia destabilizzante di Francia e Stati Uniti: Gheddafi è caduto per volontà  francese, e con lui è caduto uno dei principali nemici commerciali di Parigi”. Con una Libia poco influente e filo-europea, la politica estera francese ha consolidato uno spazio coloniale che collega l’esagono al Congo, tramite gli stati amici di Ciad, Niger, Camerun e tutto il corno d’Africa francofono, Costa d’Avorio e Mali inclusi. “A questo – sottolinea il ricercatore – si uniscono gli interessi U.S.A: la penetrazione commerciale nord-americana parte dal Ghana e mira alle risorse di tutto il Sahel. Destabilizzare quest’area diventa dunque un mezzo per giustificare un intervento armato e riaffermare interessi neo-colonali”. Diversi elementi contribuiscono a rendere estremamente complessa la vicenda. Il 17 gennaio alcune milizie del Movimento Nazionale di Liberazione dell’Azawad (MNLA) iniziano nel nord del paese un’offensiva contro le truppe governative. Di etnia berbera e lingua tamasheq, i miliziani rivendicano l’autonomia politica dei territori desertici del nord, dove convivono con gruppi sonrai, arabi, peul e soninke, in nome del diritto all’autodeterminazione del popolo che noi conosciamo come “tuareg”. Il governo maliano, tradizionalmente poco presente nella zona, non rafforza la presenza militare, garantendo le prime vittorie al MNLA. Parzialmente avvallato dal malcontento popolare verso un governo debole, il 22 marzo un gruppo di militari destituisce il presidente maliano Touré, creando una situazione di vuoto di potere che favorisce ulteriormente l’avanzata degli independentisti. La presenza nel nord di gruppi armati di matrice fondamentalista contribuisce poi a far crescere l’instabilità . Si tratta di Ansar Al Dine, fondato da un capo tuareg con l’obiettivo di imporre un’intepretazione fondamentalista dell’Islam, Al Qaeda nel Maghreb Islamico (AQMI), ben armato e attivo dal 2006 negli interstizi sahariani del potere statale, fra Algeria, Niger e Mali e del rivale Movimento per l’Unità  e il Jihad nell’Africa Occidentale (MUJAO). Gruppi uniti da interessi economici legati al traffico di droga, di armi, di persone e a connessioni più o meno evidenti con altri “al Qaeda associated movements” e con finanziatori arabo-sauditi. A riattivare la ribellione dei tuareg, la cui storia attraversa silenziosa gli ultimi cento anni sono l’arrivo di armi e uomini, fra cui ex-mercenari al servizio di Gheddafi, dalla Libia in guerra e probabilmente la presenza di una rete internazionale di donatori. Il 6 aprile, avendo ormai occupato gran parte dei territori rivendicati, il MNLA proclama l’indipendenza della Repubblica democratica e laica dell’Azawad, il nord del paese che comprende le regioni di Gao, Tomboctou e Kidal. Il controllo del territorio è però parziale e risulta facile per i gruppi fondamentalisti sfruttare incertezze e divisioni etniche per occupare Gao e Kidal. “È qui – evidenzia Corinne Dufka, ricercatrice di Human Rights Watch – che il MNLA ha perso credibilità ”. Dufka si riferisce all’accordo, smentito dopo poco, del movimento con Ansar al Dine, in previsione di una “repubblica islamica dell’Azawad”. Credibilità  offuscata anche dalle accuse di violazione di diritti umani fondamentali a opera del Movimento come di tutte le parti in causa, sollevate da un primo rapporto stilato da HRW nell’aprile 2012 e confermate da una recente visita al paese. “I giovani tamasheq in tutto il mondo sostengono il MNLA in nome di un’identità  culturale forte e mai riconosciuta da nessuna nazione – sostiene Dufka – ma spesso i leader tamasheq hanno agito per interessi personali, e nelle zone di conflitto non hanno saputo tutelare i civili”. La situazione umanitaria nel paese è critica, tanto più che si innesta su una delle crisi alimentari più gravi degli ultimi 20 anni. Secondo OCHA, l’ufficio di coordinamento umanitario delle Nazioni Unite, fino a inizio agosto 430 mila persone hanno lasciato le loro case, in gran parte dal nord, 260 mila delle quali per insediarsi oltre confine in Burkina Faso, Niger, Mauritania. Uno spostamento di massa che ha messo in difficoltà  seria le popolazioni locali e le organizzazioni umanitarie, i cui fondi sono risultati insufficienti a allestire campi di accoglienza adeguati, come evidenziato fra gli altri dall’ong americana Refugees International. “A inizio agosto abbiamo registrato il ritorno nell’Azawad di alcuni sfollati interni – riporta Dufka – in coincidenza con la stagione del raccolto, ma la conflittualità  della zona permane alta”. Al tentativo della diplomazia del MNLA di presentare un’immagine positiva del movimento, come unica alternativa alla violenza dei gruppi qaedisti, corrisponde una situazione di scontro continuo sul terreno, in particolare fra MNLA e MUJAO. Il governo di unità  nazionale formato a Bamako il 20 agosto dal primo ministro Diarra, pur ponendosi come primo obiettivo di ripristinare l’unità  territoriale del Mali, si trova ostaggio dell’estrema frammentazione politica interna, delle decisioni delle comunità  regionali africane (Comunità  Economica dell’Africa Occidentale – CEDEAO e Unione Africana in testa) e degli interessi euro-statunitensi. La recente decisione di dispiegare le forze militari della CEDEAO non rassicura affatto rispetto alla situazione umanitaria. L’UNHCR, in una nota dello scorso maggio, invitava i governi a non eseguire rimpatri verso il Mali. Un messaggio recepito, seppur non immediatamente, dal governo italiano, con l’effetto di cambiare drasticamente la condizione giuridica di centinaia di persone. Idriss è fra gli oltre 400 maliani che hanno presentato domanda d’asilo in Italia nel 2011. Fuggiti dalla Libia in guerra, nel giro di pochi mesi hanno fatto crescere di un terzo la piccola comunità  maliana della penisola. Molti di loro riceveranno un permesso di soggiorno per 3 anni, la così detta protezione sussidiaria o complementare, a riconoscimento, come stabilisce la direttiva europea 83 del 2004, di una situazione di violenza indiscriminata che esporrebbe la persona al rischio di un “danno grave” nel caso dovesse rientrare nel paese. La cifra “record” di richiedenti asilo maliani in Italia e Europa nel 2011 non deve però far dimenticare i 260 mila rifugiati maliani insediatisi in alcuni dei paesi più poveri dell’Africa e una situazione in continua evoluzione su cui, ricorda Corinne Dufka, “l’Europa sta iniziando solo ora a aprire gli occhi”.


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