MASCHERE Dalla piramide ai toga party la deriva estetica del potere

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Oggi le volumetrie del potere in passerella sono seni rialzati come le mansarde condonate, sono le rotondità  levigate come i colonnati finto classici delle villette (abusive) e delle feste (abusive) in costume. Sono patacche che vengono da lontano, dalle forme dello scenografo del craxismo Filippo Panseca che costruì con cartapesta e polistirolo il tempio greco alla Fiera di Rimini, la piramide nella ex Ansaldo, 20 metri di muro di Berlino. La sua ossessione della Romanità  e del Rinascimento è ancora quella di Alemanno che adora toghe, bighe, gladiatori e indossa costumi medievali presi al teatro dell’Opera.
Panseca stava a Craxi come Speer a Hitler, ma “con i materiali dell’effimero”, tra i quali anche il titolo di architetto dismesso dai giornali solo quando Craxi cadde nella polvere e Panseca tornò “il geometra”. Oggi è dimenticato come l’enorme garofano rosso illuminato a neon sul monte Pellegrino. Una sua falsa Venere del Tiziano, che stava nella camera da letto di Craxi, fu presa per vera dagli esperti del tribunale. Panseca era già  kitsch ma non ancora la cloaca maxima che è tornata a galla a Roma. Allo stesso modo, nella Milano da bere, c’era in nuce l’estetica del bunga bunga e dei maiali.
I socialisti portarono in politica, insieme a nani e ballerine, talkshow, barzellette, vignette, pubblicità , mode, canzoni, gossip, esibizionismi, follie, sprechi di ogni genere e cocaina. A Roma si faceva l’alba nella villa di Martelli sull’Appia antica mentre De Michelis si dissipava in discoteca. E Andreotti, per non averli tra i piedi, convocava le riunioni del Consiglio dei ministri alle 7 del mattino. E però alle feste partecipavano anche i grandi stilisti, cantavano la Vanoni e Dalla, c’erano Strehler e la Jonasson, pittori, agenti di cambio e faccendieri. Il cerimoniere non era Craxi “il faraone”, ma Pillitteri “il cognato”: «ma quale sindaco di Milano, quello mio cognato è». Alla Rai non c’erano le veline ma le zarine, famose per le note spese, e poi il mondo dell’editore di Playmen Adelina Tattilo… Giorgio Bocca rievocò una finta caccia alla volpe dai Visconti: «Quali Visconti? Non importa, i Visconti». E le cene ad Arcore non si concludevano nella sala del bunga bunga, ma in giardino tra gli obelischi bianchi di Cascella e nel sacrario famiglia dove Montanelli rifiutò l’assegnazione di una tomba e chissà  se è vero che disse «Domine, non sum dignus». Il posto lo ottenne invece Emilio Fede, e chissà  se ce l’ha ancora.
I maiali restavano nascosti e non c’erano le Olgettine, ma le avventure di Marina Ripa di Meana, di Marta Marzotto, gli scandali di Valentina Cortese, le chiacchiere attorno a donne che volevano rifare il mondo attraverso la bellezza. Dietro le loro gambe si vedevano la Biennale di Venezia, l’Accademia d’Arte, i poeti, Guttuso che disegnava Lucio Magri in sembianze di scimmione. Neppure Totò aveva previsto il potere maiale tra le puellae che si leccano il muso. La sua malafemmina era ancora la vipera gentile, la maggiorata che fumava mille sigarette mentre Fred faceva il grano col tressette. Oggi non c’è più posto per la Valentina selvaggia e innocente di Crepax nelle feste attorno a Ponte Milvio, che in questi anni a Roma ha preso il posto della vecchia Piazza Euclide dei Parioli: Ponte Milvio è diventato Ponte Silvio.
Nessuno poteva immaginare la maschera di Stato della femmina emancipata dal porno che Berlusconi ha mandato nei parlamenti d’Italia. Lo sguaiato incedere del suo bunga bunga è ormai il modello di tutte le esibizioni del potere. Non c’è dubbio che i maiali, i gladi di plastica e i muscoli flaccidi ripropongono a Roma la stessa sessualità  sbracata di Arcore ma senza i titoli di Stato della Minetti, boccone di re Priapo.
Oggi la maschera è quella della democrazia “Fiorito plebea”, un po’ Briatore e un po’ Califano, molto Berlusconi e una spruzzata di Ciarrapico. E però Bossi che festeggia il dio Po e Alemanno che si mette in maschera sul Tevere non sono la cultura popolare di Pasolini né quella di Alberto Sordi ma la sua rimasticatura “piccolo borghese” direbbe il vecchio e saggio Lukà cs (che era un grande borghese). La Roma di Alemanno e della Polverini toglie i veli alla repubblica, smonumentalizza l’ingessatura statuaria dell’Italia, è la democrazia alla vaccinara dell’arraffo. Il vecchio Gava che porgeva l’anello al bacio dei clienti devoti imitava il Papa ed era a sua volta imitato da Mario Merola che cantava «Addnocchiat e vasam sti man» (inginocchiati e baciami le mani). La sceneggiata del potere non era ancora festa.
Quando nacque l’euro solo Roma, con Rutelli sindaco, anziché organizzare convegni di studi sulla moneta come produttore di comunità , si sfrenò in canti e balli in
mezzo ai quali fu intrappolato – può capitare – anche Ciampi, in evidente e crescente disagio, molto diverso dal compiacimento della Polverini tra i porci, ai quali solo la sinistra mise le ali, festeggiando la trasgressione e la liberazione sessuale da ogni stalinismo puritano e bigottismo ecclesiastico.
Ma quando la classe operaia andò in paradiso, anche D’Alema precipitò nell’estetica del potere, con le famose scarpe fatte a mano, la barca, il risotto da Vespa. È un’estetica fatta apposta per le caricature che, in questi anni di “teatraccio”, così lo chiama il nostro grande Filippo Ceccarelli, sempre sono state migliori degli originali. E infatti solo Virginia Raffaele è riuscita a dare dignità  umoristica alla Minetti che mai ci riesce da sola. Proprio come la Cortellesi con la Santanché, Fiorello con La Russa, la Guzzanti con D’Alema, Panariello con Briatore e tutti i comici d’Italia con Berlusconi. Nella satira all’italiana, la vittima ha una sola via d’uscita: farsi compare del carnefice. La Minetti che incarna lo stereotipo della Minetti diventerebbe allegria e intelligenza. Ma non accade più. Il modello è ancora Berlusconi, che cacciava dalla Rai tutti quelli che lo prendevano in giro. Il potere italiano, nelle sue varie maschere, è così degradato che non sa prendere le distanze da quel se stesso che le Virginia Raffaele così bene strapazzano.


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