Obama, crisi nell’urna

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WASHINGTON. Una crisi internazionale a cinquanta giorni dal voto delle presidenziali è quanto di peggio poteva accadere a Barack Obama. L’uccisione a Bengasi, in Libia, dell’ambasciatore statunitense e di altre tre cittadini americani (da 20 anni non capitava simile sorte a un diplomatico Usa), le proteste anti-americane riesplose in Medio oriente, rumore di sciabole, il consolato Usa a Berlino evacuato dopo un falso allarme attentato: e il candidato repubblicano Mitt Romney, sotto di qualche punto nei sondaggi post conventions, che ci salta subito sopra. «Non solo noi, ma tutto il mondo e anche il Medio Oriente hanno bisogno di un’America più forte, hanno bisogno della sua leadership», ha detto Romney, parlando in Virginia e attaccando implicitamente Obama con l’accusa d’aver fatto perdere agli Stati Uniti il loro ruolo di potenza guida, in particolare sul fronte militare. «Quando sarò eletto alla Casa Bianca – ha aggiunto Romney – dirò basta ai tagli che Obama ha imposto al nostro esercito, che deve tornare a essere il più forte del mondo». Il candidato repubblicano punta esplicitamente a usare l’ultima crisi libica per far passare un messaggio piuttosto audace: Obama come Jimmy Carter, il presidente democratico che nel 1979 inciampò nella rivoluzione iraniana e perse anche dei marines in una incursione militare andata a finire male. «Oggi è stata una giornata dura», gli ha risposto a distanza il presidente americano Obama, rivolgendosi ai partecipanti di un incontro elettorale a Las Vegas dopo la tragedia di Bengasi. «A volte le cose sono molto dure – ha detto il presidente – ma se noi siamo risoluti, non molliamo, non diventiamo cinici, ma continuiamo ad essere realistici su come siano duri i cambiamenti, sempre mantenendo però un senso degli ideali e un senso di proposta, alla fine nel tempo qualcosa di buono accadrà ». Dal canto suo, il segretario di Stato Usa Hillary Clinton ha lanciato un appello: «Ogni leader responsabile dovrebbe alzarsi ora per condannare ogni violenza», definendo comunque «disgustoso e riprovevole» il film anti-islamico all’origine dell’ennesima crisi. E ovviamente ribadendo che la violenza non è un modo per onorare una religione: «È sbagliato – ha aggiunto – attaccare i diplomatici perché attaccare le ambasciate è attaccare l’idea di lavorare insieme». E’ lo stesso concetto che ieri mattina il presidente dovrebbe aver detto al presidente egiziano Mohamed Morsi. Al Cairo proteste contro l’ambasciata americana si sono susseguite per tutto il giorno; a Washington, oltre alla preoccupazione per gli eventi, c’è stata molta irritazione per la reazione tiepida di Morsi all’uccisione dei diplomatici Usa a bengasi. Di fatto, mentre il governo libico ha condannato immediatamente l’accaduto, il governo egiziano ha atteso 24 ore prima di usare parole di condanna. L’Egitto, fanno notare alcuni analisti di politica internazionale interrogati dal New York Times, rischia di diventare un problema molto più grande della Libia per la presidenza americana, se non altro perché il paese riceve 2 miliardi di dollari in aiuti dagli Usa (secondo per importanza, dopo Israele) ed è considerato strategico per le relazioni nell’area. Il presidente Morsi ha confermato di avere avuto un colloquio telefonico con il presidente Usa Obama, affermando che la condanna della violenza è «una linea rossa per tutti i musulmani e respingiamo ogni attacco. Noi ci sacrificheremo con le nostre anime e i nostri cuori», ribadendo la sua opposizione contro «tutti i tentativi di attaccare il Profeta e i principi sacri dell’Islam», ma garantendo che non saranno permessi attacchi ad ambasciate e che gli egiziani sono contrari ad «atti fuorilegge». E’ difficile credere ad azioni militari come ritorsione da parte Usa, ma intanto due navi da guerra si stanno dirigendo verso le coste libiche. Si tratta di due «destroyer», la USS Laboon, già  al largo delle coste libiche, e la USS McFaul, attualmente in viaggio. Dovrebbe arrivare tra qualche giorno; oltre alla Laboon e alla McFaul, nel Mediterraneo sono presenti altre tre navi classe «destroyer». Tutte equipaggiate con missili Tomahawk, ovvero con missili cruise a lungo raggio.


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