Paraguay, indagine su un massacro
Si tratta dello sgombero, avvenuto il 15 giugno scorso, di un latifondo di proprietà di un ricco signore, Blas Riquelme, ex presidente del Partido colorado (lo storico partito conservatore). Quel giorno hanno perso la vita undici contadini e 6 poliziotti, senza contare i numerosi abitanti feriti e le decine di arrestati, e quegli scontri sono stati strumentalizzati – con i contadini dipinti come criminali – per accelerare il rovesciamento dell’allora presidente Fernando Lugo, di lì a pochi giorni. Marina Cué si trova in uno dei dipartimenti orientali del Paraguay, dove prevale il grande latifondo, spesso di proprietari stranieri (in gran parte brasiliani). Del resto, il Paraguay è forse il paese al mondo dove la terra è più concentrata: il 2,5% dei proprietari ha nelle sue mani l’85% delle terre coltivabili. A dire la verità molti di questi latifondi sono di origine dubbia, perché in molti casi si tratta di terre del demanio statale distribuite in modo illegittimo durante i decenni di dittatura (ma anche dopo, pare) a notabili politici, imprenditori, militari: e uno dei motivi, se non il principale, della destituzione di Lugo è stata proprio la sua idea di avviare una revisione delle proprietà terriere illegittime, le cosiddette tierras mal habidas, per redistribuirle nell’ambito della riforma agraria: prospettiva inaccettabile per l’oligarchia latifondista ormai consolidata (e per l’agroindustria multinazionale di cui è alleata, visto che in quelle grandi tenute si coltiva la soja transgenica che è una delle voci forti dell’export nazionale). Anche le terre occupate da un gruppo di famiglie contadine a Marina Cué erano in realtà dello stato, sostenevano i senza terra, e in effetti era in corso un procedimento civile per determinare la titolarità di quei terreni – che invece il signor Riquelme considerava parte del suo latifondio. Tre mesi dopo dunque un gruppo di osservatori è tornato a Marina Cué per ricostruire il quadro. Gli osservatori del Fian Internacional, Campagna Globale per la Riforma Agraria (Via Campesina Centroamerica), Grupo de Investigaciòn en Derechos Humanos della Cattedra Unesco dell’Università della Catalogna, e varie organizzazioni paraguayane affiliate a Via Campesina, hanno parlato con testimoni e sopravvissuti, magistrati e difensori civili. Risulta che già da parecchi giorni la presenza di polizia nella zona era diventata schiacciante. Quel 15 giugno per sgomberarli erano mobilitati 400 effettivi di polizia, 20 pattuglie, la polizia a cavallo, un elicottero, e le ambulanze erano in posizione già dalle 4 del mattino. Gli agenti hanno accerchiato i contadini e sono avanzati sparando. Tutte le testimonianze confermano che il primo a essere ucciso è stato il dirigente della lotta per il recupero delle terre, Avelino Espinola: un obiettivo «mirato». La missione denuncia poi «esecuzioni extragiudiziarie, persecuzione, minaccia di morte, torture fisiche e psicologiche» alle persone arrestate durante gli scontri – molti sbattuti in carcere senza neppure ricevere cure per le ferite. Dice che un gran numero di feriti e di cadaveri sono stati raccolti poi dalla popolazione, non dalle autorità : a quella gente è stata negata perfino la dignità , oltre a un minimo di giustizia – ora 54 persone sono state imputate di vari reati, incluso l’omicidio, senza che sia prodotta prova alcuna. Un caso lampante di «uso delle forze repressive dello stato a salvaguardia degli interessi dei gruppi di potere».
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