Perché sull’Ilva continuiamo a sbagliare

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Un progresso che, come nel caso di Taranto, offre buoni posti di lavoro ma inquina irrimediabilmente il territorio circostante. Fornisce un salario garantito ai padri ma mina irrimediabilmente la salute dei figli.
Non sembri eccessivo tirare in ballo la grande sociologia contemporanea per cercare di dipanare la matassa dell’Ilva perché pur rappresentando Taranto un caso-limite, si iscrive comunque nella parabola dei nuovi pericoli che corrono le nostre società . Nell’epoca industrial-romantica — quella che ha forgiato le convinzioni di uomini come Emilio Riva — probabilmente quei rischi non venivano nemmeno catalogati come tali, erano considerati il prezzo fisiologico da pagare all’avanzata della civiltà  delle macchine e del compromesso democratico con la forza lavoro. Il fordismo non lasciava spazio ai dubbi. Oggi che la sensibilità  ecologica pubblica è notevolmente cresciuta (ci siamo posti persino l’obiettivo di vietare il fumo negli stadi), non è maturata però di pari passo una sufficiente tecnica di governo e risoluzione di queste contraddizioni. Si può dire che conosciamo alla perfezione i mali che vogliamo combattere ma non sappiamo da dove cominciare. Da qui la cacofonia che abbiamo ascoltato in queste settimane a proposito del futuro del centro siderurgico pugliese e soprattutto la mancata assunzione di responsabilità . Ci si è palleggiate le accuse, le statistiche sui tumori sono diventate persino materia di presunte querele, i sindacati si sono incredibilmente spaccati e si è arrivati alla sconsolante conclusione che dobbiamo scegliere tra salute e lavoro.
Gli economisti industriali che hanno studiato il caso sostengono che l’impianto di Taranto ha un ruolo centrale nel sistema delle forniture per l’intera meccanica di trasformazione italiana e che se dovessimo importare l’acciaio oggi prodotto dall’Ilva la nostra bilancia commerciale ne risentirebbe pesantemente (la stima è di 6 miliardi). Le ragioni della continuità  industriale vanno, dunque, al di là  della pur sacrosanta salvaguardia di 12 mila posti di lavoro e investono quel che resta della credibilità  dell’Italia come grande Paese industrializzato. Oggi però, per dirla con gli schemi di Beck, il rischio è distribuito asimmetricamente, l’Italia ha bisogno dell’acciaio di Taranto e gli abitanti della città  ne pagano interamente il prezzo in termini di maggior inquinamento e malattie. La bonifica dello stabilimento è di conseguenza un passaggio obbligato per una comunità  nazionale che non voglia abdicare, si tratta solo (e al più presto) di quantificare i costi sapendo che i 400 milioni stanziati finora non basteranno di sicuro. Ma se è il Paese che va chiamato ad assumersi la responsabilità  di creare le condizioni per la continuità  di Taranto, un’analoga richiesta di onestà  intellettuale va girata ai Riva e alla rappresentanza degli industriali. La domanda chiave potrebbe essere formulata così: produrre acciaio in Puglia in condizioni di buona sostenibilità  ambientale è giudicato dagli imprenditori un obiettivo irrealistico? La verità  in questi casi aiuta.


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