Romney, l’alleato di Obama

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In questa riunione, sentendosi tra orecchie amiche, Romney si è lasciato andare a dire non quello che realmente pensa, visto che il suo opportunismo è tale che non c’è nulla che pensa davvero, ma a dire quel che riteneva che i suoi potenziali finanziatori volessero sentire. E visto che il suo più generoso finanziatore è il magnate ebreo Sheldon Adelson, proprietario della Las Vegas Sand Corporation (casinos), la cui fortuna è stimata a 24 miliardi di dollari, e visto che Adelson è sostenitore convinto del governo israeliano di di Benjanin Netanyahu ed è proprietario del quotidiano gratuito Israel HaYom, il più diffuso d’Israele, è immaginabile che, quando Romney dice che la pace in Medio oriente è impossibile perché la soluzione dei due stati è impraticabile e che «in ogni caso i palestinesi non vogliono la pace per ragioni politiche, perché sono impegnati nella distruzione ed eliminazione di Israele», egli ritiene che sia questo che Adelson – e attraverso di lui Netanyahu – vogliono sentirsi dire: d’altronde che Israele volesse far fallire il processo di pace lo sospettavamo già  da un po’.
Ma poi Romney ha deciso di commettere quello che gli strateghi repubblicani hanno definito un vero e proprio suicidio politico. Ha detto apertamente che a lui del voto del 47 % degli statunitensi non importa proprio un bel niente perché comunque sono parassiti, scrocconi, che vogliono la minestra già  calda e che voteranno per Obama in ogni caso perché dipendono dallo stato. Subito i democratici si sono precipitati a dire che in questo 47 % vi sono tutti i militari in servizio e congedati (gruppo che da sempre vota repubblicano ma che quest’uscita può alienare), e vi sono tutti i pensionati che costituiscono il nucleo duro del Tea Party (e così Romney si aliena anche loro). Tanto che l’organo filorepubblicano Politico cominciava ieri il suo articolo con questa frase: «Se le campagne politiche hanno nove vite, Romney ne ha già  usate otto».
E il più autorevole esponente neo-con, il direttore del Weekly Standard, William Kristol, ha commentato: «Romney sembra disprezzare non solo i democratici che gli sono contrari, ma anche le decine di milioni che intendono votare per lui».
Insomma, Romney sta risolvendo quel che è stato il problema di Obama fin dall’inizio della campagna e cioè l’incubo dell’astensionismo democratico. Come in America hanno imparato da tempo (ma in Italia la sinistra non ha ancora capito la lezione), le elezioni non si vincono rincorrendo il mitico centro e cercando di attirare i (sempre più sparuti) indecisi, ma si vincono se l’astensione nel proprio campo è minore dell’astensione nel campo avverso. Fu portando a votare giovani e neri (due gruppi tradizionalmente astensionisti negli Usa) che Obama riuscì nella sua cavalcata trionfale del 2008. Quest’anno i risultati non proprio esaltanti del primo mandato di presidenza rischiavano (e in parte rischiano ancora) di far restare a casa una fetta importante di elettori democratici: per tastare il polso dell’opinione liberal, basti leggere l’editoriale dell’ultimo numero di Harper’s (un mensile non certo estremista), in cui Thomas Frank dimostra in modo convincente che Obama cerca disperatamente il compromesso anche con la propria ombra, che i repubblicani questo l’hanno capito e stanno perciò spostando sempre più a destra il punto di compromesso, facendo balenare a Obama quell’accordo bipartisan che lui agogna da sempre e che somiglia sempre più alla lepre del cinodromo. (Romney ha lo stesso problema in termini simmetrici, visto che i conservatori cristiani e il Tea party non si fidano di lui, gli uni perché è mormone, gli altri perché quando era governatore varò una riforma sanitaria che è persino più a sinistra di quella di Obama, riforma che il Tea Party vede come il fumo negli occhi). Ma con la sparata sul 47% Romney sta rimotivando i demotivati elettori democratici a non restare a casa e a recarsi alle urne il 6 novembre.
Questo non è il primo autogol di Romney. Già  la Convention repubblicana di Tampa era stata un flop clamoroso, rimasta nella mente degli elettori solo per l’inguardabile balbettio senza capo né coda di Clint Eastwood nella serata conclusiva. Poi c’è stata la reazione frettolosa dopo l’uccisione dell’ambasciatore Usa in Libia, quando Romney ha accusato Obama di chiedere scusa agli integralisti islamici e di essere antiamericano: altro boomerang. Intanto il suo candidato alla vicepresidenza, il deputato del Wisconsin Paul Ryan, ci metteva del suo quando diceva che lui ci tiene talmente alla forma fisica da aver corso la maratona in meno di tre ore; solo che una rivista di jogging si è presa la briga di controllare e ha scoperto che aveva corso in più di quattro ore: tutta la differenza che corre tra l’eccezionalità  e la sufficienza. E proprio perché gratuite, queste sono le bugie che fanno infuriare gli statunitensi: si ricordi che Nixon fu destituito non perché aveva registrato le conversazioni, ma perché aveva mentito.
Insomma in campo repubblicano comincia a serpeggiare il panico. A 47 (come il 47 % degli americani «fannulloni») giorni dalle elezioni, il presidente Obama è in netto vantaggio in stati in bilico come Ohio,Wisconsin, Nevada, Virginia. Ma il rovescio di questa fulgida medaglia è che se Obama riesce a perdere anche con un avversario così inetto come Romney, allora dovremmo riconsiderare tutto quel che su di lui è stato scritto e detto.


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