Rulli di tamburo per Rocha

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ROCHA (Uruguay). L’Uruguay, come diversi paesi dell’America latina, attraversa un periodo di forte crescita economica. Ma le ricette per assicurare maggiore benessere sociale avviate dal governo di sinistra sembrano dominate da scelte di tipo tradizionale, concentrate sullo sfruttamento del patrimonio naturale. A prevalere è l’idea che il riscatto sociale di un paese possa prevedere deroghe alla questione ambientale. Diversi movimenti uruguayani si sono resi conto di queste enormi contraddizioni e hanno cominciato a perdere la speranza in un vero cambiamento di paradigma, ma anche ad organizzarsi.

Il porto commerciale
In questi giorni sono in corso delle grande mobilitazioni a Montevideo e a Rocha contro due mega progetti di sviluppo economico nazionale. Il presidente uruguayano José Mujica del Frente Amplio, ex guerrigliero Tupamaro e da quasi due anni capo dello Stato, a fine giugno ha firmato un decreto che consente l’avvio dei lavori per la costruzione di un enorme porto commerciale sulla costa atlantica di Rocha, una delle aree naturalistiche più affascinanti dell’America del sud. Il progetto sarà  realizzato in un’area incontaminata e prevede l’utilizzo di 2.500 ettari di territorio e l’esproprio di 458 terreni delle comunità  locali. Il porto sarà  realizzato grazie a un accordo pubblico-privato, ossia con il sostegno di capitale privato per lo più di multinazionali interessate al progetto. Il costo complessivo stimato è di oltre 700 milioni di dollari. Secondo il governo «la costruzione e lo sviluppo del porto di acqua profonda a Rocha fa parte della politica nazionale che vuole favorire una logistica di trasporto efficiente per rinvigorire lo sviluppo della produzione e l’economia nazionale». Tutto questo, in parole povere, significa che le materie prime naturali e fossili estratte nell’area centrale del Mecosur saranno veicolate verso il nuovo colossale porto, facilitando i grandi capitali sempre più interessati allo sfruttamento dei minerali ferrosi e delle risorse petrolifere ed idriche presenti nella regione, senza dimenticare il legname frutto delle deforestazioni e la soia transgenica, che sta diventando una monocultura devastante.
Il progetto fa parte di una strategia più ampia concordata con gli altri Stati del Mercosur attraverso l’Iirsa (Integrazione dell’infrastruttura regionale sudamericana), progetto di collaborazione commerciale tra i paesi latinoamericani che a detta di molti è per lo più una buona occasione di ampliamento di mercato per la nuova superpotenza continentale, il Brasile. Una strategia concordata, dunque, che ritaglia un posticino anche al tranquillo Uruguay alla mensa affaristica della globalizzazione liberista.
Le miniere di ferro
Questa “grande opera” si lega indissolubilmente a un altro progetto chiamato Aratiri («terra dei lampi», in lingua guaranì), approvato poco tempo fa dal governo, per l’estrazione di minerale di ferro da un giacimento situato a Cerro Chato. In questo caso lo sfruttamento è portato avanti dalla Zamin Ferrous, multinazionale estrattiva poco nota ma assai agguerrita, con sede a Londra e affari anche in Asia. Aratiri sarà  la miniera più grande mai sviluppata in tutta l’America latina: l’investimento previsto ammonta a 2,5 miliardi di dollari (1,7 milioni di euro) pari a più del 6 per cento del Pil uruguaiano. Una miniera dedicata all’estrazione del ferro a cielo aperto, con un’estensione di oltre quarantamila ettari e un impatto enorme sull’ambiente circostante e sulle popolazioni locali, poiché ha come obiettivo l’estrazione di almeno 22 milioni di quintali annui di materiali ferrosi. Quei minerali arriveranno dritti dritti al porto di Rocha attraverso un minerodotto e a un acquedotto che consumerà  risorse idriche equivalenti a una città  di centomila abitanti (http://movusuruguay.org/).
La denuncia dei movimenti ambientalisti e soprattutto delle popolazioni locali è chiara: l’impatto di queste opere sull’ambiente e sul tessuto sociale ed economico locale è devastante. Dal punto di vista ambientale, innanzitutto, la struttura portuaria produrrà  impatti significativi sugli ecosistemi marini e terrestri: la zona costiera del dipartimento di Rocha è stata identificata come area di importanza internazionale per i suoi alti valori naturali, per la presenza di particolari ecosistemi, per il suo ruolo nella protezione delle specie migratorie e in via di estinzione. Sulla costa di Rocha sono concentrate tre delle otto aree protette che compongono il Sistema nazionale delle aree protette del paese, tra cui le uniche tre aree marine nazionali. Queste aree sono parte di un sistema integrato di tutela delle risorse naturali dell’Atlantico che, attraverso la tutela di alcuni siti chiave, mira a garantire la continuità  dei cicli vitali per la biodiversità , come quello delle balene e di una delle colonie di leoni marini più grandi dell’Atlantico Sud.
Il turismo e l’agricoltura
Altro danno non di poco contro sarà  quello alle comunità  locali che vivono soprattutto di turismo, di produzioni agricole e di pesca artigianale. «Questo progetto è illegale – dice Gabriela, una donna della comunità  di Paloma – Non siamo stati mai consultati, è evidente che vogliono favorire gli interessi delle multinazionali che faranno mangiare qualcuno oggi, ma ci porteranno alla fame domani».
Il turismo è una delle attività  economiche più importanti in Uruguay, che occupa l’8 per cento della forza lavoro attiva del paese. Nel 2010 le entrate del turismo (1.478 milioni di dollari) hanno superato i proventi delle esportazioni di carni bovine. E in un paese dove ci sono 3,5 milioni di abitanti e 13 milioni di mucche questo significa molto. L’area coinvolta nel progetto da qualche decennio è meta turistica internazionale di chi cerca il contatto con una terra incontaminata e una costa non cementificata. Lo stesso governo ha investito capitali importanti insieme alla cooperazione internazionale nella creazione di clusters di turismo sostenibile per promuovere un sistema economico di piccola scala in armonia con l’ambiente. Queste reti (o clusters) hanno attirato piccoli investimenti e imprenditori amanti della natura che, affascinati dai mestieri locali, come la pesca artigianale, la coltivazione della palma di buttià , o l’allevamento dei cavalli selvaggi, si sono insediati in forma definitiva costruendo un interessante contaminazione di fermento economico e rispetto per la travolgente natura. Sono anche loro assieme alle comunità  locali che gridano «no» a quest’opera. Lo slogan della loro protesta è chiaro: «La terra non si vende, la terra si difende!».
Parlano i pescatori
«Il destino della Paloma deve essere pensato e costruito in maniera partecipata da chi ogni giorno vive di questa terra e di questo mare – commenta Martà­n, un pescatore di Rocha – Solo chi comprende quello che può offire questa terra può difenderla, può prendersene cura. Oggi per fortuna siamo consapevoli che questo modello di sviluppo genera ogni giorno resistenza in tutto il mondo, perché non è in grado di risolvere i problemi delle persone. Al contrario, provoca un degrado irreversibile della nostra cultura e aggredisce le nostre risorse naturali essenziali per sostenere la vita sul pianeta».
Oltre ad azioni di protesta diffuse, promosse per bloccare l’avvio dei lavori e per denunciare a lievello nazionale e internazionale gli interessi in gioco, i movimenti locali hanno elaborato una proposta alternativa con tanto di piano economico e strategico: chiedono di ristrutturare le costruzioni già  esistenti del porto della Paloma per sviluppare un polo turistico sostenibile e rafforzare le attività  di pesca artigianale in grado di contrastare la pesca industriale che saccheggia la costa. Del resto, perfino il ministero del turismo ha valutato l’impatto di quest’opera come «devastante» per questa rete di turismo locale e per la sua economia di piccola scala in crescita. Tra le iniziative di informazione, c’è anche un breve documentario, molto diffuso in rete, intitolato «La verdad ofende» («La verità  fa male»).
Di recente nel nord dell’Argentina vari progetti di miniere a cielo aperto sono stati bloccati dalle mobilitazioni popolari, come racconta, tra gli altri, il regista Pino Solanas nel suo film «Oro impuro». Altri progetti di devastazione ambientale sono stati fermati in America latina dai movimenti locali. Di sicuro, anche in questo caso è evidente che i movimenti uruguayani hanno bisogno di un sostegno internazionale per proteggere questi territori, «bene comune dell’umanità ».

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Altra economia e pacifismo

Riccardo Troisi è economista e ricercatore sulle tematiche legate all’economia sociale e solidale. È impegnato su diversi progetti di cooperazione solidale internazionale ed è attivo da più di quindici anni sui temi dell’economia solidale, del consumo critico, dell’educazione alla pace, alla nonviolenza e all’Intercultura. Attualmente è Presidente dell’associazione ReOrient e consigliere nel direttivo del Consorzio della Città  dell’AltraEconomia di Roma, nonché attivista della Rete Italiana Disarmo. Negli ultimi due anni è stato impegnato nella difesa della Città  dell’AltraEconomia (esperimento unico in Italia, nato nel 2007 su un progetto delle organizzazioni attive nei circuiti dell’altra economia) dai tentativi della giunta Alemanno di smantellarla. Collabora con diverse riviste del mondo del sociale ed è tra i redattori della testata on line www.comune-info.net.


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