Senza capo. Agli ordini del manager collettivo

by Sergio Segio | 2 Settembre 2012 12:04

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«Nella società  comunista, in cui ciascuno non ha una sfera di attività  esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la società  regola la produzione generale e in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico». Così scrivevano Karl Marx e Friederich Engels nel 1845 ne
L’ideologia tedesca, in una delle utopie più celebri della storia del pensiero umano. Oggi quell’Arcadia senza gerarchie né capi, senza una divisione del lavoro o mansioni predefinite, prende sostanza nel luogo dove meno te l’aspetti: nel cuore del capitalismo americano. Non è una propaggine di Occupy Wall Street, è un’evoluzione quasi “naturale” che si è prodotta nelle punte più avanzate dell’industria, soprattutto sulla West Coast.
Non è frutto di un’ideologia, bensì la risposta a un problema molto pragmatico: come esaltare la produttività  e la creatività  in azienda. Che non si tratti di esperienze eccentriche motivate dalla fede in una dottrina antica, lo dimostra il rispetto che questo fenomeno riceve dal giornale più letto tra i manager americani, il
Wall Street Journal. «Welcome to the Bossless Company», recita il titolo di una recente inchiesta dedicata a questo fenomeno.
Bossless: senza capo. Come può funzionare un esperimento che vanta precedenti fallimentari, come l’autogestione in Jugoslavia ai tempi del maresciallo Tito, le “conferenze di produzione” e i consigli di fabbrica nella Francia e nell’Italia post- 68, o certe comuni agro-artigianali nate nell’euforia del movimento hippy? Tempi lontani, epoche arcaiche sotto un aspetto fondamentale: la tecnologia.
È l’evoluzione tecnologica quella che oggi rende molto meno irrealistico e ingenuo il modello della bossless company.
Anche se alcuni pionieri illustri appartengono all’industria in senso proprio e tradizionale, e cominciarono a sperimentare la rivoluzione anti-autoritaria qualche decennio fa. La primogenitura spetta probabilmente alla W. L. Gore, la società  che ha brevettato e dato il nome alla fibra speciale Gore-Tex, tessuto impermeabile usato nell’abbigliamento. Fu fondata nel 1958 ma la sua sperimentazione del modello “senza capi” è stata una conquista graduale. L’ha resa celebre un guru del management moderno, Malcom Gladwell, citandola nel suo best-seller The Tipping Point (Il punto critico nella traduzione italiana). La Gore, che ha il suo quartier generale a Newark nel Delaware, non è una piccola impresa: ha diecimila dipendenti. Ha sì un chief executive, la signora Terri Kelly, ma questo è uno dei pochi titoli che appaiono in un organigramma volutamente piatto, o fluido che dir si voglia. Un altro studioso di management, Frank Shipper che è docente alla Salisbury University, ha studiato la Gore come un modello di flessibilità , e una prova che la mancanza di capi può esaltare l’innovazione. In un settore industriale che ha visto un’ecatombe di aziende occidentali sotto la pressione della concorrenza asiatica, la Gore ha saputo sfruttare al massimo la qualità  delle sue risorse umane. Le idee nuove non vengono necessariamente dall’alto: tutti possono averne di valide. Il lavoro è organizzato per squadre che si formano e si disfano su singoli progetti. Invece della tradizionale “catena di comando” — che storicamente s’ispira agli eserciti, poi riadattata dal taylorismo — ci sono “ruoli da leader” che vengono riconosciuti di volta in volta «a chi si guadagna la stima dei colleghi e viene riconosciuto come un aggregatore». Peraltro, la Gore dà  un alto valore anche a coloro che sono dei “buoni gregari”, efficaci compagni di squadra che s’integrano nel gioco di gruppo.
In campo industriale ci sono altri esempi, perfino di dimensioni superiori. Dalla Toyota alla Volvo, l’industria automobilistica ha conosciuto esperimenti di “qualità  totale” che riconoscevano una responsabilità  diffusa alle maestranze, spezzando la rigidità  del fordismo. In modo ancora più originale, la General Electric ha abolito i capireparto e molte gerarchie nelle sue filiali del settore aerospaziale. Un solo leader assegna degli obiettivi di produzione, ma non ha il potere di disciplinare i ritmi quotidiani di lavoro. La produzione si organizza per squadre che si autogestiscono, discutendo all’inizio e alla fine di ogni turno i problemi da risolvere. Nato come un esperimento su scala ridotta, il lavoro senza capi alla General Electric oggi riguarda 83 stabilimenti e 26mila dipendenti. La crisi economica scoppiata dal 2008 ha funzionato da acceleratore di queste tendenze: nelle ultime ondate di ristrutturazioni, spesso è stato il management a subire le cure dimagranti, con l’eliminazione di interi strati di gerarchie considerate poco efficienti.
La palma dell’originalità  spetta all’economia digitale, ovviamente. Già  dalla sua fondazione Google aveva dato un esempio di struttura “mobile”, con squadre che si formano e si disfano su singoli progetti (e l’obbligo ai dipendenti di dedicare il 20 per cento del tempo di lavoro retribuito “a se stessi”, cioè all’introspezione, la riflessione libera, per scatenare la fantasia progettuale). Steve Jobs era celebre per il suo metodo che consisteva nell’andare “a caccia di talenti” all’interno della stessa Apple, prelevando da questo o quel settore dei cervelli che ricollocava per disegnare nuovi prodotti. Ma quelle erano e sono ancora aziende con dei capi. Del tutto boss-free,
libera da ogni capo, è la Valve di Bellevue (Stato di Washington): dalla fondazione nel 1996 i suoi 300 dipendenti non hanno mai conosciuto la parola chief executive,
non hanno dei manager. Sono loro stessi a reclutarsi, cioè a selezionare dei collaboratori su singoli progetti. La mobilità  è così pronunciata che le scrivanie sono montate su rotelle, per essere spostate continuamente. Lo stipendio varia a seconda delle pagelle che ti danno i colleghi: è il metodo della peer review o controllo dei tuoi pari grado, ispirato da quanto avviene nel mondo accademico americano.
Uno studio delle università  dell’Iowa e del Texas ha dimostrato che le squadre di dipendenti che si autogestiscono e si controllano da sole, in media hanno una produttività  superiore. «Funzionano come una sorta di buon manager collettivo », conclude l’autore della ricerca Stephen Courtright. Non che sia facilissimo adattarsi: la maggior parte dei nuovi arrivati ci mettono fino a sei mesi per capire le regole di un’azienda… senza regole. E i licenziamenti? Sono più rari, e decisi sempre in squadra, ma avvengono: quando un collega si dimostra refrattario al gioco, e incompatibile con gli altri.

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