Sudafrica, gli schiavi del platino

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MARIKANA. «A quattrocento metri sotto terra ti manca il respiro. Ti sembra di morire». Dumisani non riesce a stare fermo. Batte i piedi e si stringe nella felpa nera, troppo grossa per il suo fisico scheletrico. Fa freddo e c’è un gran silenzio nella vasta pianura del Rustenburg, 150 chilometri a ovest di Pretoria. Alte colline artificiali, sorte con la terra di rimessa delle miniere, circondano le baracche dei villaggi improvvisati. Nascondono il sole che si affaccia a fatica tra i nuvoloni neri gonfi di pioggia. Dai tuguri fatti con vecchie assi, pezzi di ferro e teli di plastica, escono uomini e donne che sembrano fantasmi. Molti vivono qui dal 1989. Li hanno dimenticati. Sono i minatori della Anglo, della Impala, della Zstrata, dell’Aquarius, della Lonmin.
Gli schiavi del platino: 300 dollari al mese, 10 ore stesi in un cunicolo alto mezzo metro, sei giorni alla settimana. Di mattina, di pomeriggio, di notte. Scioperano da cinque settimane. Oggi è un mese esatto. Dall’inizio della rivolta, dagli scontri furibondi con la polizia, dentro e fuori le miniere. Con le sparatorie, gli assalti a colpi di accetta e machete, le vendette, le torture, le esecuzioni a freddo. Nel buio delle gallerie, tra i campi bruciati dai falò delle barricate. Agenti contro lavoratori. Operai contro altri operai. Sindacalisti contro altri sindacalisti. Una mattanza: 34 morti. Saliti a 45 quando si sono scoperti gli ultimi cadaveri, la testa spaccata e il torace sfondato dai proiettili di gomma, assieme a quelli di due poliziotti e cinque guardie della sicurezza. L’arresto di 270 minatori, l’accusa di omicidio sulla base della common purpose: una legge infame, varata nel 1956, per frenare le rivolte studentesche di Soweto contro il razzismo. Mai abolita, rimasta nascosta nelle pieghe della nuova Costituzione e nel nuovo sistema giuridico. Uno shock per il Sudafrica di Nelson Mandela.
Quello del lungo cammino verso la libertà , il paese dell’arcobaleno, delle tante razze che convivono e crescono insieme. E’ uscito dal torpore di un benessere concesso a pochi, di uno sviluppo da cui sono esclusi in tanti. Con l’incubo di un nuovo apartheid cresciuto sulla pelle dei più deboli, dei diseredati, costretti a sopravvivere negli slum, sempre più vasti, sempre più isolati. Assieme alle ondate di immigrati, gli ultimi degli ultimi: i dannati disposti a tutto. «Sono devastata», commenterà  Nadine Gordimer, l’attivista e scrittrice sudafricana, Premio Nobel per la letteratura nel 1991. «Mai avrei immaginato di vedere tanti morti tra la stessa popolazione nera».
Adesso siamo una ventina. Disposti a cerchio. Le mani in tasca, lo sguardo piantato verso terra, gli occhi scuri come il carbone che si illuminano quando i ricordi tornano a quella mattina. «Era il 16 agosto. Un giovedì», rievoca Mametlwe, il più anziano del gruppo. «Da quattro giorni discutevamo cosa fare. C’erano stati degli scioperi spontanei, giù nelle gallerie. Si scende fino a 700 metri, ventuno livelli. Ti mollano sulla tua piattaforma e ti infili nel cunicolo. Devi strisciare fino in fondo. E inizi a scavare. Con la pala, il piccone, poi con il martello pneumatico. Non respiri. A volte ti passano dell’ossigeno. Prendi aria e riprendi a scavare. Niente sosta. Te la rubi. Se puoi. Ingoi un miscuglio di erbe energetiche. Fanno schifo, ma ti aiutano. Sempre con la testa infilata nel cunicolo e la faccia piantata contro la roccia. Ma il caldo ti ammazza. Bevi un po’ d’acqua. I polmoni sono pieni di polvere e terra. Lo vedi quando esci: sputi nero».
Il gruppo annuisce, gli occhi sempre bassi. Secondi di silenzio. E’ la volta di Mbwle, il più giovane. «Votiamo per lo sciopero. Usciamo tutti e ci rifiutiamo di rientrare. C’era tensione, anche perché la sicurezza era intervenuta all’ingresso di altre gallerie ed erano scoppiati dei tafferugli. Due guardie erano morte, altre tre erano rimaste ferite. Il giorno dopo i sindacati decidono uno sciopero ad oltranza. Entrambi: il Num e l’Amcu, quello nuovo, nato da poco, più combattivo. Davanti all’ingresso della Lonmin, qui a Marikana, si raduna una grande folla. La gente era arrivata dai villaggi vicini. Per solidarietà . Dicono che c’erano delle armi. Non lo so».
La polizia è presente in forze. Almeno cinquecento uomini. Sono furibondi. Ci sono stati dei morti. E poi quella folla è minacciosa. Qui, gli agenti prima sparano e poi parlano. La violenza è endemica. C’è anche l’esercito. Ma resta a distanza. Il lavoro è affidato ai tank, ai fucili a pompa, ai gas lacrimogeni, alle autoblindo e agli idranti. La folla è minacciosa. Sono migliaia. Urlano e agitano i bastoni. Ci sono le prime cariche, gli elicotteri che volteggiano; sorgono le barricate, con i copertoni dati alle fiamme, il fumo denso e nero che oscura il cielo. Dopo i lacrimogeni, arrivano i proiettili di gomma. Molti cadono a terra. Si conteranno oltre 200 feriti. Finirà  in un massacro. Non accadeva dal 1976, quando 26 studenti vennero uccisi durante una rivolta a Soweto. Il governo di Jacob Zuma usa la mano dura. Di fronte allo sgomento del paese riesuma la vecchia legge usata ai tempi dell’apartheid: tutti i partecipanti ad un evento sono responsabili dei reati commessi. In questo caso omicidio. Ma il presidente chiede anche la ripresa del negoziato. Lavora sui dirigenti dell’Association of mineworkers and construction union (Amcu), il sindacato storico dei minatori, legato all’Anc, il partito al potere. Chiede di trovare subito un accordo. La direzione della Lonmin, la multinazionale anglo-americana del platino, ha deciso di interrompere la produzione. Il metallo, usato nella gioielleria e nel catalitico, perde tre punti sul mercato in un solo giorno. Il Sudafrica è il primo produttore: possiede l’80 per cento delle riserve mondiali. L’azienda batte i pugni sul tavolo del governo: a rischio sono migliaia di posti di lavoro, buona parte dell’economia del paese. Oltre al danno d’immagine. Prospetta l’incubo di una fuga degli investitori stranieri. I minatori replicano con altrettanta decisione: chiedono un aumento a 12.500 rand, circa 1200 dollari. Oltre alle indennità . Il triplo del salario attuale, più del doppio del pil pro capite nel paese.
L’Amcu accetta un incremento di 300 dollari. Ordina ai militanti di tornare al lavoro. Il Sudafrica respira. L’incubo sembra svanito. Ma la sorpresa arriva il giorno dopo: la maggioranza degli operai non accetta l’accordo. Il piccolo sindacato del National union of mineworkers (Num) raccoglie la sfida. Guida e cavalca la protesta. Tra le sue fila ci sono i più poveri e i meno garantiti. Gli stessi che adesso ci raccontano, tra lungi silenzi carichi di paura, gli esiti di una battaglia che mette in crisi la dirigenza dell’African National congress (Anc) e lo stesso presidente Jacob Zuma. Chi vuole lavorare viene minacciato, picchiato. Lo sciopero continua e si allarga ad altre decine di miniere costrette a interrompere la produzione. La battaglia coinvolge 50 mila minatori. L’intera regione di Rustenburg, la «cintura del platino», è paralizzata. Con nuovi scontri e feriti. L’Anc frena. Scagiona i 270 minatori dall’accusa di omicidio, ne libera la metà . Cerca ancora il dialogo. E’ costretta ad affrontare il dissenso interno. Che cresce e divide.
Julius Malema, l’ex segretario della Youth league, il settore giovanile del partito, espulso nel novembre scorso per ribellione, ha lavorato in gran silenzio. Adesso esce allo scoperto. Sfrutta il suo incrollabile carisma: resta un leader, la gente lo acclama, chiede a viva voce il suo rientro. Lo vuole alla guida del settore giovanile. Anzi, del governo. E Malema ne approfitta. Torna tra i lavoratori, parla davanti a folle imponenti. Comizi infuocati. Il suo è un attacco alla dirigenza dell’Anc, al suo potere inossidabile sin dal 1994.
Il presidente Zuma tace. Impone l’ordine ma vieta ogni azione di forza. Ci sono blitz tra le baracche alla ricerca di armi. Trovano solo marijuana. Sei arresti. Subito rilasciati. Una reazione giudicata debole. Il presidente mostra una fragilità  che il Sudafrica accoglie con freddezza e stupore. Il Sudafrica del business, della classe nera che vuole fare soldi e affari. Con una mano nell’Anc e l’altra nelle multinazionali. La gente si trova prigioniera di un conflitto che non sento suo. Più politico che sociale. Ma soprattutto personale. Julius Malema contro Jacob Zuma. Il re insidiato dal suo delfino. Il maestro tradito dal suo pupillo. Un potere che mostra le prime crepe. Assieme ad un’economia che registra il primo calo: crescita del 3 per cento dopo 10 anni di sviluppo costante. I minatori di Marikana ora hanno lo sguardo smarrito. Sono confusi, incerti. «Non sappiamo cosa fare», ammettono tra lunghi silenzi. Hanno paura. Di una battaglia troppo grande. Per loro e per il Sudafrica.


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