UN PASSO INDIETRO DAGLI STATI NAZIONALI

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Non si può evitare una cosa senza volere l’altra.
Consideriamo anzitutto il retroterra storico. Per una Repubblica Federale Tedesca gravata da un pesante fardello morale e politico, la promozione del processo di unificazione europea era raccomandabile già  per ragioni di intelligenza politica, per poter riacquisire la reputazione internazionale distrutta con le sue stesse mani. A sua volta, l’inserimento nell’Europa è stato il contesto nel quale si è formata un’autocomprensione liberale della Repubblica Federale. Su questa base, dopo la riunificazione (con 17 milioni di cittadini provenienti da un’altra socializzazione politica) si è instaurata l’abitudine ad una certa normalità  da Stato nazionale. Ora essa viene sfidata. L’eco del ruolo-guida che oggi per motivi demografici ed economici tocca alla Repubblica Federale non solo ridesta spettri storici, ma comporta anche per noi la tentazione di un “fai da te” nazionale. La risposta a tutto cioè la prosecuzione della politica di cauta cooperazione praticata nella vecchia Repubblica Federale: “Germania in Europa”.
Un secondo motivo per un’ulteriore integrazione politica è lo spostamento dei pesi tra la politica e il mercato, che continua fino ad oggi in conseguenza dell’auto-esautoramento liberale della politica. Per i cittadini democratici la politica è l’unico mezzo per influire intenzionalmente, attraverso l’agire collettivo, sui destini e i fondamenti dell’esistenza sociale della loro comunità . D’altra parte, i mercati sono sistemi autocontrollati che coordinano in modo decentrato una quantità  inimmaginabile di singole decisioni. Da un punto di vista normativo, l’una e l’altro sono dei “media” che assicurano la libertà . Sotto questo profilo, lo Stato democratico di diritto può essere inteso anche come l’ingegnosa invenzione che intreccia tanto strettamente le pari opportunità  di partecipare all’autodeterminazione della società  con la garanzia di libertà  economiche soggettive ugualmente ripartite, da far sì che gli effetti dei due “media” si integrino. La crisi attuale distrugge questa complementarità . Nel circolo vizioso tra l’interesse delle banche e degli investitori per i profitti e l’interesse per il bene comune degli Stati sovraindebitati i mercati finanziari hanno il coltello dalla parte del manico. Non è mai accaduto prima che governi eletti fossero stati sostituiti senza indugi da persone di fiducia dei mercati – Mario Monti o Lukas Papadimos. Mentre la politica si sottomette agli imperativi del mercato mettendo nel conto l’aumento della disuguaglianza sociale, i meccanismi sistemici si sottraggono sempre più all’influenza intenzionale del diritto democraticamente stabilito. Questa tendenza non potrà  essere ribaltata – se mai potrà  esserlo – senza riacquisire la capacità  d’azione politica.
Un terzo motivo, attinente alla politica monetaria, per trasferire ulteriori diritti di sovranità  nazionali sul piano europeo è legato alle condizioni necessarie per il funzionamento di una moneta comune, condizioni che nell’eurozona non sono ancora state realizzate. Dopo l’introduzione dell’euro la Banca Centrale Europea, con il suo tasso di interesse unitario, non è riuscita ad appianare le forti divergenze nei livelli di crescita e di inflazione delle economie nazionali. La mancanza della possibilità  di svalutazione priva del più importante meccanismo di adattamento (sotto forma di prezzi più alti per le merci importate) i paesi membri, che continuano a operare in modo indipendente nell’ambito delle politiche di bilancio. Quanto meno omogenee sono le diverse economie, e quanto più si distinguono per il grado di competitività , tanto più importanti sono gli altri meccanismi di parificazione, come un adeguamento flessibile dei salari e dei prezzi, un’elevata mobilità  della forza-lavoro o la possibilità , che vale solo nel nostro caso, di trasferire competenze, che a livello federale riguardano soprattutto i sistemi delle tutele sociali. Perciò, gli esperti concordano sul fatto che senza trasferimenti di competenze i crescenti squilibri strutturali all’interno dell’eurozona non possono essere attenuati, né possono essere ridotti a medio termine anche soltanto nel quadro delle politiche strutturali ed economiche comuni. Ma le competenze per le decisioni politiche con effetti di ridistribuzione transnazionale non possono rimanere concentrate unicamente nel Consiglio europeo; infatti, nel sistema di negoziazione intergovernativo il raggio d’azione del mandato democratico e quello del potere d’intervento collidono l’uno con l’altro. La legittimazione democratica di queste decisioni necessita invece della partecipazione paritaria di un legislatore eletto da tutti i cittadini europei che possa decidere sulla base di interessi generalizzati a livello europeo.
Questi tre argomenti si riferiscono a sviluppi che risalgono molto all’indietro e non riguardano soltanto i provvedimenti per far fronte alla crisi attuale, ma ricordano un problema che gli attori politici che agiscono in una logica incrementalistica nascondono dietro il velo di un poco impegnativo filoeuropeismo. I responsabili presentano le loro decisioni come misure di riparazione, l’onere della cui legittimazione può continuare a essere sostenuto dai parlamenti nazionali. I capi di governo pensano alla loro rielezione, mentre il presidente del Consiglio europeo, la Commissione europea e la Bce progettano una “architettura istituzionale” per una “vera” unione economica e fiscale, “based on the joint exercise of sovereignty for common policies and solidarity”.
Alla mia domanda sulla portata di questo “esercizio comune di sovranità ” Herman Van Rompuy mi ha spontaneamente risposto che a questo scopo devono essere cambiati non solo i trattati europei, ma anche molte costituzioni nazionali. Se la prospettiva non pubblica della politica di Bruxelles fosse effettivamente questa, il nostro governo praticherebbe un abile doppio gioco. Di fronte a questo chiaroscuro, la sentenza della Corte costituzionale tedesca del 12 settembre assume un significato più che politico-operativo: la Corte avrebbe dovuto compiere un lavoro di chiarimento normativo. La mia impressione è che nemmeno l’attuale giurisprudenza sull’Europa consenta di sapere se la Corte ha difeso lo Stato nazionale nel nome della democrazia o non piuttosto la democrazia nel nome dello Stato nazionale. Su questa linea argomentativa protettiva e smaniosa di sovranità  essa ha chiuso gli occhi dinanzi ai vasi comunicanti che collegano il diritto nazional-statale al diritto europeo. Poiché essa presuppone che il principio democratico, così come è formulato nell’articolo 202 della Costituzione tedesca, possa essere applicato soltanto nel quadro nazionale, di fronte alle competenza ora avocate a sé dal Consiglio europeo ha sparato tutte le sue cartucce. In quest’ultima decisione del 12 settembre non riesco a riconoscere alcun contributo costruttivo alla salvezza transnazionale della democrazia minacciata a livello nazionale. Il sì condizionato all’European Stability Mechanism e al Fiscal Compact rafforza le norme fondamentali democratiche alle quali si sono appellati i loro detrattori, ma nel processo di applicazione giuridica a fattispecie tecnocratiche normativamente scivolose la loro sostanza sembra dileguarsi.
(Traduzione di Carlo Sandrelli)


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