Addio a Shlomo, raccontò la Shoah ai ragazzi

by Sergio Segio | 2 Ottobre 2012 7:07

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ROMA — Lui c’era. Shlomo Venezia, ebreo catturato a Salonicco nel ’44 e trasportato ad Auschwitz con tutta la famiglia, se n’è andato via per sempre ieri mattina, a 88 anni: era scampato allo sterminio «per caso», ma portava sull’anima un peso che piegherebbe le gambe a chiunque. Appena arrivati sul treno galera alla Judenrampe, la banchina su cui venivano fatti scendere gli ebrei, «mi attardai per aiutare mia madre a scendere e un soldato mi colpì due volte, allontanandomi. Fu l’ultima volta che vidi lei e le mie due sorelline, Marika e Marta». Quasi tutti vennero spediti direttamente alla camera a gas, Shlomo si salvò perché aveva 20 anni, era forte e i nazisti lo reclutarono nel Sonderkommando: addetto al “Krematorium 2”, il grande forno in cui «facevamo i turni dalle 8 alle 20, o dalle 20 alle 8, e cremavamo tra 550 e 600 ebrei al giorno».
È stato uno dei pochissimi al mondo a sopravvivere al Sonderkommando, perché i nazisti non lasciavano testimoni. Ma per tanti anni non era riuscito neppure a raccontarla, la sua storia terribile: tagliava i capelli alle donne davanti alle camere a gas, poi raccoglieva i corpi e li portava alla pira nel grande forno crematorio. «Attraverso l’istituzione del Sonderkommando si tentava di spostare sulle vittime il peso della colpa, talché, a loro sollievo, non rimanesse neppure la consapevolezza di essere innocenti », scrisse Primo Levi che però non fu tenero con i «corvi neri del crematorio», come chiamò quegli uomini costretti a collaborare coi nazisti.
«Qualunque cosa faccia, qualunque cosa veda, il mio spirito torna sempre nello stesso posto… Non si esce mai, per davvero, dal Crematorio», raccontò
Shlomo in “Sonderkommando Auschwitz”, il libro verità  del 2007 tradotto in 24 lingue. Il dramma del nazismo sulla sua pelle. Non gli piaceva esibire il dolore, e con pudore mostrava il “182.727” tatuato sull’avambraccio. A fine guerra era solo e malato, distrutto nel fisico e nell’io. Per anni non riuscì a dire una parola sul suo dramma: «Poi, un giorno, ho trovato il coraggio, perché tutti sappiano». Era il ’92: sui negozi sotto casa a Roma qualcuno aveva scritto “giudei al forno”. Era troppo. Da allora aprì la sua anima a migliaia di ragazzi delle scuole, accompagnandoli nei “Viaggi della memoria” per esorcizzare il ritorno del male assoluto. E Benigni lo scelse come consulente per “La vita è bella”.

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