Barack avrà  anche deluso ma non ci ha mai tradito

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Il mese scorso sono stato invitato a una festa presso una galleria d’arte di Manhattan frequentata dall’immancabile congrega di artisti, giornalisti e ricchi collezionisti. Ho parlato anche con un’amica, una pittrice, da sempre sostenitrice del partito democratico, la quale però mi ha annunciato che quest’anno non avrebbe versato alcun contributo alla campagna elettorale di Obama. «Mi ha dato una grossa delusione — ha ammesso —. Nemmeno uno dei grandi banchieri di Wall Street è stato chiamato a rispondere della crisi finanziaria, e per di più il presidente ha prorogato i tagli fiscali varati da Bush per i ricchi. Non riesco più a raggranellare un briciolo di entusiasmo per lui. A questo punto, non so nemmeno se andrò a votare». In un altro angolo della stanza, diversi collezionisti, che lavorano in gran parte nel settore finanziario, e pertanto di tendenza politica diametralmente opposta, sorseggiavano un anonimo vinello bianco, servito in bicchieri di plastica, e si lagnavano di Obama. «È un socialista», diceva un tipo calvo e tarchiato che si occupa di hedge fund. «Lui odia quelli come noi». E i suoi amici lo ascoltavano e annuivano.
In alcune fasce dell’elettorato americano, «socialista» è il peggior insulto che si possa lanciare a un politico. Per anni il partito repubblicano ha fatto leva sullo spettro dell’Unione Sovietica e le sue malefatte per attizzare il fervore nazionalistico e gettar fango sulla sinistra, accusandola di scarso patriottismo. E molti, a destra, hanno interpretato il crollo del blocco sovietico come prova del fallimento dell’ideologia socialista. Da parte sua, bisogna ammettere che Obama ha fatto ben poco per meritarsi il titolo di «socialista». Per esempio, non ha ancora abolito le massicce concessioni fiscali varate da Bush a favore dei ricchi per sostituirle con una adeguata tassazione delle classi più abbienti, benché il suo pacchetto di riforma sanitaria, costatogli tanto tempo, fatica e capitale politico per farlo approvare dal Congresso, rappresenti un rafforzamento del ruolo del governo nel sistema della sanità  pubblica.
È curioso osservare come Obama sia riuscito ad alienarsi i grandi banchieri, i finanzieri e gli investitori, molti dei quali lo avevano sostenuto nel 2008, e al contempo abbia fatto imbufalire quanti non hanno ritenuto abbastanza incisive le sue mosse per disciplinare Wall Street. Se il decreto Dodd-Frank, voluto da Obama e approvato in gran parte dai democratici al Congresso nel 2010, imponeva rigide normative e restrizioni sul settore finanziario, a molti è parso che il suo contenuto sia stato via via ampiamente annacquato e rivesta oggi una valenza soprattutto simbolica.
Nel settore finanziario, invece, molti ritengono di essere stati danneggiati dal decreto, anche se in realtà  Wall Street ha prosperato, guadagnando nei primi due anni e mezzo del governo Obama più di quanto non abbia fatto negli otto anni di presidenza Bush, secondo il parere del Washington Post. È stato Bush a varare i primi aiuti governativi per mettere al sicuro le grandi banche durante il crac del 2008, ma Obama ha seguito quella stessa linea politica, salvando così il sistema finanziario da un crollo ancor più rovinoso. Motivo della delusione che avvertiamo in tanti — ovvero tutti coloro che non si schierano con Wall Street — è la sensazione che Obama non abbia ottenuto altrettanto successo nel tutelare la classe media e le fasce sociali meno abbienti. L’uomo che tanto aveva saputo ispirare le folle con i suoi discorsi elettrizzanti in campagna elettorale si è rivelato un comunicatore assai mediocre durante i primi due anni di presidenza, incapace di spiegare e difendere le sue politiche nei momenti cruciali.
Persino adesso, mentre ferve la campagna elettorale, il suo miglior paladino è stato Bill Clinton, che ha pronunciato una splendida difesa di Obama alla convention nazionale del partito democratico, malgrado le ben note tensioni tra i due uomini politici. Come Clinton, sono anch’io convinto della necessità  di offrire a Obama una seconda possibilità , perché l’alternativa sarebbe tornare alle politiche fallimentari del governo Bush, tra le quali i vergognosi sconti fiscali ai ricchi e l’abolizione di normative e controlli sulle imprese.
Per un curioso paradosso della politica americana, in questo Paese i poveri e i lavoratori spesso votano per lo stesso partito dei ricchi capitalisti. Sin dai tempi di Ronald Reagan e della sua strategia «sudista», orchestrata in parte attorno alle paure razziali dei bianchi degli Stati del Sud, il partito repubblicano è diventato sempre più abile nel convincere i lavoratori americani in ogni angolo del Paese a votare contro i loro stessi interessi economici, strumentalizzando le istanze socioculturali più scottanti, come l’aborto, il possesso delle armi, l’immigrazione, la religione a scuola e il matrimonio omosessuale. Il prezzo che il partito ha dovuto pagare per seguire questa linea politica è stato quello di vedersi sempre più cavalcare da estremisti religiosi e culturali, che vorrebbero fare marcia indietro per tornare ai tempi in cui l’America era in maggioranza bianca, e aborto e omosessualità  erano proibiti per legge, mentre era ammessa invece la discriminazione politica ed economica contro i neri e altre minoranze etniche. La maggior parte di questi elettori si ritengono cristiani, ma la loro interpretazione dei valori del cristianesimo si riallaccia al Vecchio Testamento, dimenticando il messaggio di compassione e di solidarietà  del Vangelo nei confronti dei fratelli più deboli e sfortunati. (Costoro hanno certamente dimenticato che Gesù scacciò i mercanti dal tempio e ammonì che era più facile per un cammello passare attraverso la cruna di un ago che per un ricco entrare in paradiso.) La cosa migliore che si possa dire della politica estera di questo governo è che non siamo più ai tempi di George Bush, e se il presidente Obama è riuscito a metter fine a una guerra assurda e ingiustificata in Iraq, non dimentichiamo che il rafforzamento delle operazioni militari in Afghanistan si è rivelato un fiasco: tutte le potenze straniere che hanno invaso quel Paese ne sono uscite sconfitte e umiliate. Sarkozy si era messo a capo dello sforzo congiunto della Nato per accorrere in aiuto dei ribelli libici, mentre la paralisi di Obama, nei confronti della crisi siriana, appare sempre di più come un tradimento degli stessi ideali da lui esaltati e un fallimento della sua leadership.
Eppure… eppure la valenza simbolica di un presidente afroamericano resta fortissima, anche dopo quattro anni. (Ieri ho visto un manifesto nella vetrina di un barbiere nel quartiere di South Bronx, a maggioranza afroamericana: era un ritratto di Martin Luther King, sotto la scritta IL SOGNATORE, accanto al volto di Barack Obama sovrastato dalle parole IL SOGNO). Obama resta ancora oggi il leader politico più carismatico a livello mondiale. Davanti a lui si avverte la sensazione di un uomo che è a suo agio nella propria pelle, a suo agio nella posizione che ricopre nel mondo, un uomo che sa esprimersi con sincerità  ed eleganza. È difficile invece percepire la benché minima cosa della personalità  di Mitt Romney, che appare semplicemente come un robot dotato di una splendida capigliatura.
Obama avrà  pur perso parte del suo fascino, e forse ha deluso molti di noi, ma non ha ancora tradito né i suoi elettori, né i suoi ideali, e probabilmente gli verrà  concessa una seconda possibilità  per realizzare i grandi sogni del 2008.
(Traduzione di Rita Baldassarre)


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