Bersani: non faccio io le liste D’Alema: decide il partito

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ROMA — Inseguito dai giornalisti giù per lo scalone di Montecitorio, a ogni gradino Massimo D’Alema scandisce la sua ribellione. Nega lo scontro con Pier Luigi Bersani, accusa i cronisti di voler «giocare sulle parole per costruire una contrapposizione che non esiste» e poi, accelerando il passo: «Decide il partito, non Bersani. Ma il segretario ha risposto correttamente, ha detto quel che sta scritto nello Statuto e cioè che le candidature le fa il gruppo dirigente. E sia chiaro che lo ha detto in polemica con Renzi, perché se le liste elettorali pensa di farle lui…».
Altra giornata di tormenti, per i democratici. Al mattino, al videoforum su Repubblica Tv, il leader del Pd strappa al sindaco l’arma della rottamazione: «Io non chiederò a D’Alema di candidarsi. Io non chiedo a nessuno di candidarsi. Io non sono quello che nomina i deputati. Io farò applicare la regola, chi ha fatto più di 15 anni deve singolarmente chiedere una deroga alla direzione nazionale».
È una svolta. D’Alema diserta la riunione di corrente dei parlamentari bersaniani e il segretario deve chiamarlo al telefono per chiarire. Ma intanto, sulla «giostra» che ha preso a girare vorticosamente nel Pd, le interpretazioni si scatenano. L’ex ministro ha davvero «scaricato» l’ex premier? La dalemiana Velina rossa di Pasquale Laurito paragona Bersani a «Ponzio Pilato» e prevede la vittoria del «Grillo di Firenze». Ma D’Alema, dopo aver detto «mi candido solo se me lo chiede il Pd», non si arrende: «Decide il gruppo dirigente. D’altro canto io non mi ero rivolto a Bersani, ma al partito». E a chi gli domanda se intenda chiedere la deroga, dopo 23 anni e 190 giorni di Parlamento, replica infastidito: «C’è tempo, deciderò quando riterrò opportuno farlo». Non si sente scaricato dal segretario? «Assolutamente no, sono d’accordo con quello che ha detto». Ma il cielo sul Pd è livido. Ed è con malcelata soddisfazione che i renziani assistono allo psicodramma innescato dal loro leader. «Anche Bersani è rottamatore, se D’Alema si aspettava una difesa è rimasto deluso. Ora non ci resta che aspettare uno a uno sulla riva del fiume» è il commento malizioso di Roberto Reggi, capo della campagna del sindaco. Un’uscita che il bersaniano Stefano Fassina respinge inasprendo la polemica: «Le dichiarazioni di Reggi sono squallide e inaccettabili». Perché nel Pd il rinnovamento «è in corso da tempo» e per metterlo in moto, è la linea di Bersani, non serviva Renzi.
Ma ieri anche lo sfidante ha dovuto mandar giù un calice amaro, l’articolo di Michele Prospero su L’Unità  lo ha letteralmente sconvolto: «Trovo ingiusto che il quotidiano fondato da Gramsci scriva che rottamazione è una parola fascistoide e, con stile e sobrietà , mi giudichi volgare, rozzo, populista, suicida, cinico, arrampicatore, brutale». Il termine fa discutere. «Rottamazione? Inorridisco…», commenta De Mita, 84 anni, alla presentazione del suo ultimo libro, «La storia d’Italia non è finita» (Guida editore).
Ma intanto Arturo Parisi e Livia Turco hanno deciso di non ricandidarsi e Bersani spera che altri seguano l’esempio di Veltroni. «È tutta gente che sa bene che si può essere protagonisti senza essere parlamentari. Quel che non è accettabile è che qualcuno impanchi, che dica “tu sei il ramo secco, tu il motorino da rottamare”». E se Renzi vincesse? «Non ci saranno scissioni», confida il leader. Intanto il partito ha ufficializzato tre candidature: il segretario, il sindaco e Laura Puppato. E con tutti, compresi Vendola e Tabacci, Bersani è pronto a confrontarsi in tv: «Alla grande…».


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