Crisi umanitaria in Pakistan

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E’ importante che un osservatorio rinomato per le sue analisi di conflitti ed equilibri geopolitici punti la sua attenzione su una crisi umanitaria provocata da un mix di disastri naturali (le alluvioni) e di un conflitto armato strisciante. Ed è anche molto ragionevole, perché la crisi umanitaria, continua il Crisis Group, «aumenta il potenziale del conflitto».
Riassumiamo. Nell’estate del 2010 il Pakistan ha subìto un’alluvione disastrosa, provocata da piogge monsoniche particolarmente abbondanti e violente che hanno investito la regione himalayana, dove hanno origine l’Indo e i suoi grandi affluenti, che sono straripati. L’Indo, che attraversa il paese da nord a sud fino a buttarsi nel Mare Arabico, è stato percorso da gigantesche ondate di piena che hanno sommerso circa un quinto del territorio nazionale, dal Punjab al Sindh e al Baluchistan meridionale. Almeno duemila persone sono morte, 20 milioni sono rimasti senza tetto, 1,6 milioni di case sono crollate, strade ponti e altre infrastrutture distrutte, campi sommersi, raccolti perduti. Esattamente un anno dopo l’Onu stimava che ancora 18 milioni di persone continuassero a soffrire le conseguenze dell’alluvione, molti ancora in alloggi di fortuna – mentre le piogge monsoniche tornavano a provocare danni, anche se in scala meno drammatica. Anche quest’estate la stagione monsonica ha già  portato grandi devastazioni nel Sindh settentrionale e nei distretti sud-occidentali del Punjab, parte del Baluchistan. E questo non solo per la violenza delle piogge ma perché il paese ha infrastrutture fragili, e la deforestazione nelle zone montagnose e pre-alpine ha lasciato terreni soggetti a frane. D’altra parte, ripetute operazioni militari contro milizie affiliate ai Taleban o al Qaeda hanno pure creato «crisi umanitarie», con ondate di civili in fuga dalle zone di conflitto: centinaia di migliaia sono sfollati nel solo 2012, lasciati però ad arrangiarsi, con scarsa assistenza governativa e qualche aiuto solo da parenti o organizzazioni caritatevoli.
Il fatto è che il governo resta impreparato a far fronte a crisi umanitarie, che siano dovute a disastri naturali o al conflitto, sottolinea Samina Ahmed, direttore del progetto del Crisis Group per l’Asia meridionale: il governo civile insediato in Pakistan nel 2008 ha fatto solo «qualche progresso» in questo senso. Nelle zone di conflitto, l’esercito resta l’attore dominante e guarda con sospetto l’intervento di esterni, dalle istituzioni internazionali alle organizzazioni umanitarie non governative. Poco o nulla è stato fatto per alleviare la miseria creata dalle alluvioni. «Così le burocrazie civili-militari minano ogni sforzo di affrontare le conseguenze di disastri umanitari», insiste Ahmed. In parte questo è motivato dal sospetto che l’aiuto umanitario faccia da copertura a intelligence straniere, spiega. Ma il risultato è che «lobbies radicali islamiche, inclusi gruppi della militanza armata, sfruttano i gap dell’assistenza pubblica», sottolinea il Crisis Group: intervengono le loro strutture assistenziali e insieme espandono la loro influenza, reclutano, capitalizzano sul risentimento pubblico per la ricostruzione mancata.


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