Ecoprimati futuri

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Veramente erano state le Maldive del presidente Mohammed Nasheed il primo stato a porsi l’obiettivo della «neutralità  carbonica» entro il 2020. Un obiettivo provocatorio, considerando che quelle isole appartengono al «club» delle vittime designate dell’innalzamento dei mari, effetto del caos climatico. Per raggranellare le somme necessarie a convertire il sistema energetico, dell’habitat e dei trasporti puntando sulle rinnovabili si proporrà , al milione annuo di turisti che sbarcano dall’aereo, di dare un contributo volontario. Nasheed, deposto in un colpo di stato lo scorso febbraio, aveva invece pensato a una tassa obbligatoria di tre dollari. Certo, il turismo rappresenta la quasi totalità  dell’economia delle Maldive, e avviene ovviamente per via aerea, inficiando quindi la ricerca maldiviana di sostenibilità  totale.
Forse sarà  più facile che il Bhutan entro il 2020 raggiunga il suo, di primato: convertire all’agricoltura biologica, senza chimica di sintesi, la totalità  delle terre agricole. Il piccolo regno himalayano, con i suoi 700mila abitanti, ha già  caratteristiche peculiari. Ha promosso un turismo dei piccoli numeri, di grande qualità  e congegnato in modo tale da dare al paese incassi unitari decisamente più elevati rispetto ai vicini India o Nepal. E soprattutto negli anni ’70 il re Jigme Singye Wangchuck inventò il concetto di «felicità  interna lorda», unità  di misura basata più sulla qualità  della vita, su un benessere spirituale, ecologico e relazionale che sulla crescita materiale. La tivù fu vietata fino al 1999 e analoghi tentativi furono fatti rispetto al fumo – anche in esterni – e agli shopper di plastica, un flagello anche sull’Himalaya…
Comunque il ministro dell’agricoltura Pema Gyamtsho ha ribadito all’Afp quel che il Primo Ministro Jigmi Thinley aveva già  annunciato in giugno alla Conferenza di Rio sullo sviluppo sostenibile: il lavoro a un piano di totale conversione al biologico in tempi rapidi, «per rispettare la nostra fede buddhista che ci chiede di vivere in armonia con la natura, cosa che non fa l’agricoltura intensiva». Certo il paese parte favorito: per gli standard internazionali, già  il ricorso alla chimica di sintesi in agricoltura è molto basso. Praticamente, l’accesso a pesticidi e fertilizzanti non naturali è limitato agli agricoltori delle aree più facilmente raggiungibili. Gli altri già  ricorrono solamente a trattamenti naturali, alla pacciamatura e al compostaggio. Due terzi dell’economia bhutanese dipendono dall’agricoltura, pur praticata su uno scarso 8% di terreno coltivabile, fra le pianure del sud e i picchi montuosi del nord. La strategia annunciata andrà  passo dopo passo. Alcune colture si convertiranno immediatamente, per altre (ad esempio il riso nelle valli) si andrà  per fasi.
Non si tratta solo di proteggere l’ambiente, spiega il ministro, ma di formare gli agricoltori a produrre più cibo sulla stessa superficie, migliorando quindi le condizioni economiche e nutrizionali. Il governo ha mandato un certo numero di produttori a studiare in India presso il «college» agricolo di Vandana Shiva. Si pensa anche a un marchio, «coltivato in Bhutan» che sia sinonimo di «coltivato biologicamente». E si prospetta un mercato presso le classi medie dei paesi vicini. Un po’ di bioglobal, seppur di vicinato?


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