FANTASMI. ECCO PERCHà‰ GLI OPERAI HANNO SMESSO DI ESISTERE

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Il senso del libro di Airaudo, La solitudine dei lavoratori (Einaudi) è racchiuso nella frase con cui termina: «Dobbiamo riportare nella politica… la rappresentanza, e con questa la cittadinanza del lavoro, per uscire da quella solitudine che, per troppo tempo, in questo paese, ha trasformato in fantasmi le donne e gli uomini che lavorano». Responsabile del settore auto della Fiom, l’autore parla soprattutto di Fiat, ma quel che scrive vale per l’intera società  italiana. Dove sembra che i massimi riconoscimenti in campo economico e sociale vadano di preferenza alle imprese e ai dirigenti i quali hanno stabilito che la democrazia, e perfino la Costituzione, si arrestano ai cancelli delle fabbriche e in genere dei luoghi di lavoro. Per primi i governi si sono sbracciati nell’elargire tali riconoscimenti soprattutto alla Fiat, ma tutto ciò che hanno concesso a questa nel campo delle relazioni industriali e delle riforme del mercato del lavoro si è rapidamente diffuso a gran parte dell’industria italiana.
Per contro le donne e gli uomini che lavorano sono stati trasformati in fantasmi, privati di ogni rappresentanza in politica perché nella quasi totalità  i media e i politici non hanno la minima idea di un rapporto essenziale per la vita dentro le fabbriche. È il rapporto tra il lavoro alla catena e democrazia. Per illustrarlo l’autore richiama due casi assai efficaci.
C’è un operaio a Mirafiori (ne parlò mesi fa il Corriere della Sera) che da tredici anni avvita bulloni per montare le cinture di sicurezza sul lato destro delle vetture. Sono nove in tutto (sei di essi hanno un nome un po’ diverso, ma non fa differenza). Usando un attrezzo ad aria compressa che pesa parecchi chili, l’operaio, chiamato Sergio nel libro, impiega per montarli circa 180 secondi, tre minuti. Poi ricomincia la stessa operazione. In un anno monta più di 70.000 bulloni. Operazioni del tutto simili le fanno altre migliaia di Sergio e di Anna negli stabilimenti Fiat.
Che cosa c’entra qui la democrazia lo spiega, in un’altra citazione, una delegata anch’essa di Mirafiori. L’accordo imposto dall’azienda la vincola a far rispettare i tempi di lavoro. Un traguardo che per molti Sergio e Anna può essere, sovente, difficile da raggiungere. Per diversi motivi: «Perché la linea di montaggio va troppo velocemente, o le pause sono insufficienti, o fa troppo caldo o troppo freddo o, ancora, i componenti da montare sono difettosi o mal posizionati ». Ma la delegata non può farci niente. L’accordo non consente che possa dichiarare sciopero, che ci siano mezzi per difendere i lavoratori o per farsi ascoltare dai capi, che la delegata trovi il modo di rappresentarli. La delegata, a norma di quel contratto legalmente stipulato, non conta niente. È un fantasma. E con lei non contano niente Sergio e Anna, in tutti gli stabilimenti Fiat, come in molte altre fabbriche. Devono soltanto ubbidire. La democrazia è stata fermata dai sorveglianti ai cancelli.
Il libro dedica giustamente spazio a un articolo della Costituzione, il 4, che di solito è poco presente nella discussione sulle relazioni industriali e le politiche del lavoro. In realtà  è un articolo fondamentale, perché vari articoli della Carta, dal 35 in avanti, parlano di diritti del lavoro, riferendosi palesemente a chi un lavoro ce l’ha, mentre questo afferma che «la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro». A rigore, potrebbe essere inteso nel senso che lo stato si adopera per dare un lavoro a tutti. Un pronunciamento della Corte costituzionale di vari anni fa ne ha temperato la portata a tale fine, ma è fuor di dubbio, nota l’autore, che nel sancire il principio del diritto al lavoro sta il nucleo del diritto alla stabilità  del posto. La legislazione del lavoro degli ultimi quindici anni, sino alla recente riforma, ha totalmente disatteso il principio dell’art. 4. Un tema che percorre tutto il libro è ovviamente il disimpegno di Fiat dall’Italia. Nel 1989 la produzione era giunta a superare nel paese i 2 milioni di vetture. Quest’anno si prevede che non supererà  di molto le 450.000. C’è la crisi, dice l’amministratore delegato Sergio Marchionne. Però la crisi ha fatto scendere le vendite del 25 per cento in Europa, non dell’80 per cento. Al fine di giustificare il disimpegno la società  ha imputato ai lavoratori e al suo sindacato più diffuso, la Fiom, ogni sorta di inadempienze, dagli eccessi di assenteismo agli intralci recati alla produzione dai sindacalisti e dagli operai, alla vetustà  dei contratti di lavoro.
A questi si è pensato bene di ovviare con l’accordo di Pomigliano del 2010, esteso poi agli altri stabilimenti del gruppo. Il succo di esso è che Sergio (l’operaio, non l’amministratore delegato) dovrebbe avvitare un maggior numero di bulloni al giorno, facendo meno pause durante l’orario, e lavorare se necessario anche 200 ore in più all’anno. Che vuol dire oltre un mese di lavoro in aggiunta agli altri e tanta fatica in più, ogni giorno. A fronte di tanti diritti in meno. Politici e commentatori di destra e di centro-sinistra hanno plaudito, in nome della modernizzazione delle relazioni industriali e della competitività . Provasse mai, qualcuno di loro, ad avvitare mille bulloni al giorno.


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