Femen Se la rivoluzione è nuda

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PARIGI. SPOGLIATI e vinci» ripete Inna mentre fa la sua lezione. Undress and win. Lo slogan è efficace anche se si presta ad equivoci. Nel Lavoir moderne, teatro del diciottesimo arrondissement, non si svolge uno dei tanti corsi di burlesque. Qui si parla di gestione del conflitto in strada, resistenza passiva ai poliziotti, tecniche di autodifesa. C’è un programma che prevede ginnastica mattina e sera. Al centro del palco un grande pungiball contro il quale assestare i colpi e, accanto, un guardaroba con delle finte uniformi delle forze dell’ordine per simulare il “corpo a corpo”, altra espressione ambigua. Niente è come sembra con Inna e le ragazze di Femen che hanno imparato a usare la propria nudità  come un’arma pacifica. Il gruppo femminista nato a Kiev nel 2008, dopo le speranze tradite della rivoluzione arancione, ha organizzato decine di proteste in giro per il mondo, sempre con il gusto della provocazione. Hanno urlato a Vladimir Putin: «L’Ucraina non è Alina!», alludendo alla ginnasta, presunta amante del leader russo. Qualche mese fa un’attivista si è buttata addosso al patriarca della Chiesa Ortodossa, con scritto sul petto: «Kill Kirill!».
Niente è come sembra con Inna e le ragazze di Femen che hanno imparato a usare la propria nudità  come un’arma pacifica. Il gruppo femminista nato a Kiev nel 2008, dopo le speranze tradite della rivoluzione arancione, ha organizzato decine di proteste in giro per il mondo, sempre con il gusto della provocazione. Hanno urlato a Vladimir Putin: «L’Ucraina non è Alina!», alludendo alla ginnasta, presunta amante del leader russo. Qualche mese fa un’attivista si è buttata addosso al patriarca della Chiesa Ortodossa, con scritto sul petto: «Kill Kirill!».
Le militanti si sono denudate sotto la neve in Svizzera, al forum di Davos, dove il presidente Yanukovich aveva detto che «per amare l’Ucraina basta vedere le donne». La primavera scorsa hanno bussato a casa di Dominique Strauss-Kahn, travestendosi da cameriere.
Prima ancora, erano venute a spogliarsi a Roma, contro “l’utilizzatore finale”, Silvio Berlusconi. Colorandosi la pelle a strisce verde, bianco, rosso, avevano cantato “Berlo Ciao”.
Ogni perfomance dura pochi minuti. Il corpo è il medium e il messaggio. Un femminismo disinibito e pop che viene dall’Est, simile a quello punk delle Pussy Riot. «Ma noi siamo arrivate prima » rivendica Inna Shevchenko che comunque si trova a Parigi proprio a causa della solidarietà  con le militanti russe. Il 17 agosto
scorso, giorno del processo a Mosca contro la band, Inna ha tagliato con una motosega un gigantesco crocifisso nel centro di Kiev, denunciando la complicità  della Chiesa ortodossa nella repressione. La polizia è venuta a cercare Inna all’alba per arrestarla con l’accusa di “atti vandalici”. Lei ha fatto in tempo a scappare. Direzione Francia, dove alcune “sorelle” le avevano promesso un rifugio sicuro.
Chissà  cosa avrebbe pensato Simone de Beauvoir con le sue camicette accollate e lo chignon
mai fuori posto dell’utilizzo politico del topless, lei che non considerava la femminilità  come un destino naturale, obbligato. Da quando Femen ha aperto il centro di addestramento a Parigi decine di ragazze si sono già  iscritte. Inna dice che sono nati gruppi anche in Olanda, in Gran Bretagna, persino in Brasile. Sembra paradossale che l’origine di questa tecnica di protesta sia stata inventata in Ucraina dove, secondo Inna, «il femminismo non è mai neppure arrivato». Femen non ha neanche appoggiato l’ex primo ministro e leader dell’opposizione Yulia Tymoshenko, ormai in carcere e per cui molti intellettuali si sono mobilitati. «Al di là  dell’arresto, che ovviamente è sbagliato — spiega la leader di Femen — consideriamo Tymoshenko collusa con il sistema della mafia maschile al potere».
Svestirsi non per essere guardate, ma per farsi ascoltare. Insieme a Inna, nella squadra parigina, ci sono Stephanie, Alexandra, Safia. Tutte ventenni, sexy, toste. «Ma dentro a Femen ci sono anche una ragazza obesa e una signora di 64 anni — precisa Inna — e non siamo per escludere gli uomini». C’è un fotografo quasi “ufficiale”. Ci sono dei giovani che fanno i sopralluoghi per preparare i blitz. Ogni azione è pensata per avere il massimo risalto mediatico. La comunicazione è studiata nei minimi dettagli. Non a caso Inna ha frequentato la scuola di giornalismo a Kiev e lavorava come ufficio stampa. Le perfomance di Femen si diffondono come un virus, tra stupore, imbarazzo e qualche ironia. «Molti dei nostri video — racconta Inna — sono censurati su YouTube e Facebook. Un’assurda ipocrisia, quando si sa quali sono i veri materiali pornografici che circolano su Internet».
A pochi passi dal centro parigino di Femen, c’è la moschea de la rue Myrha. Il quartiere della Goutted’Orèuncrocicchiodiculture e religioni. «Stare qui dimostra esattamente chi siamo: ragazze coraggiose che non si fanno condizionare da chi ci circonda». Il motivo del successo tra le ventenni è forse questo: proporre una miscela di coraggio virile ed erotismo femminile. Nel corso viene insegnato come filmare ogni azione, per poi diffonderla sul web. Inna fornisce alle militanti consigli come: «Togliersi la maglietta nel minor tempo possibile e girarsi subito a favore dei fotografi ». Sul petto, viene sempre dipinta di nero qualche scritta. “Dio è donna”. “Nudité, liberté”. Le militanti più spiritose usano anche i colori, variando da un seno all’altro. Molte indossano una corona di fiori, simbolo in Ucraina di castità  e purezza. «Con le nostre azioni — spiega Inna — cerchiamo di sovvertire e manipolare tutti i simboli del maschilismo».
È difficile trovare un filo conduttore nelle tante proteste di Femen. Sfogliando la galleria fotografica di questi ultimi quattro anni, che Inna ostenta con orgoglio, si trovano bersagli ovvi come Putin, Berlusconi e Dsk ma anche la solidarietà  con i giornalisti perseguitati in Georgia, l’iraniana condannata alla lapidazione Sakineh, i ragazzi di Occupy Wall Street, e persino la difesa degli animali maltrattati nello zoo di Kiev. L’unico vero tema ricorrente è il diritto all’autodeterminazione delle donne — il famoso “Io sono mia” — e la battaglia contro la prostituzione. “L’Ucraina non è un bordello” è stato lo slogan del gruppo durante le manifestazioni contro il turismo sessuale collegato agli europei di calcio. «Il destino delle donne nel nostro paese è segnato: ti puoi sposare, oppure prostituirti. In ogni caso sei schiava dell’uomo». In Francia, come altrove in Europa, la situazione è più sfumata, esistono associazioni di “sex workers” fiere del loro mestiere. «La prostituzione non è mai libera» ribatte Inna che sembra avere pochi dubbi, come quando dice: «Il vecchio femminismo, fatto di conferenze e cortei, non funziona più. Noi siamo il futuro».
Il dubbio è che, alla lunga, anche l’effetto sorpresa svanisca. Molte organizzazioni di donne sostengono che le performance di Femen servano solo a confermare e rafforzare una visione maschile del mondo. «Accade l’esatto contrario — replica Inna — la nostra nudità  disturba e spiazza gli uomini proprio perché non sono loro che decidono come e quando ci dobbiamo spogliare e cosa fare del nostro corpo». Un anno fa, Inna e altre tre ragazze di Femen sono venute in Italia. «Da voi — ricorda — ho partecipato a una trasmissione tv abbastanza maschilista. Ma non importa: per lanciare le nostre denunce siamo pronte ad andare ovunque. Potremmo persino accettare di fare la copertina di Playboy». Una coniglietta femminista? «Perché no».


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