Il primo Nobel cinese al poeta degli umili. I dissidenti contestano

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Ieri l’Accademia Reale Svedese ha assegnato il premio Nobel alla Letteratura 2012 al cinquantasettenne scrittore cinese Mo Yan
Il Premio Nobel per la Letteratura 2012, dato allo scrittore Mo Yan, spezza un incantesimo che da decenni teneva incatenati scrittori e intellettuali cinesi, irritati da quello che ormai era stato chiamato dalla stampa cinese il «complesso del Nobel». Perché, si sono interrogati in migliaia di articoli, dibattiti, e discorsi, perché mai nessuno scrittore cinese ha vinto il Nobel? Perché nessun cinese, perfino, ha mai vinto? Che nel 2000 lo avesse vinto lo scrittore Gao Xingjian, cinese di nascita e di lingua, ma in esilio in Francia dal 1987, sembrava solo aver sparso sale sulla ferita. L’insulto massimo, poi, venne considerato il Premio Nobel per la Pace al dissidente Liu Xiaobo del 2010, che non solo ha messo l’intera Norvegia in seri guai diplomatici con Pechino, ma che ha fatto esclamare con esasperazione che il Nobel era solo un premio «politico», anti-cinese per di più, e nient’altro. Pochi giorni fa, il quotidiano cinese iper-nazionalista Global Times, perfino, si era lanciato con una paginata intera in cui diceva che, semplicemente, i principi del Nobel non sono principi cinesi – senza troppo dire cosa sarebbero questi ultimi. Una volpe e l’uva colossali, immediatamente accantonati ieri, quando il website del Global Times osannava il Nobel a Mo Yan nemmeno fosse stato l’intero medagliere olimpico.
Che il premio, dunque, non sia più politico? Volendo, non proprio, ma ora è andato in direzione opposta: Mo Yan è infatti un autore controverso, vicino al regime, che ha più volte detto che la censura «aiuta a rendere più sottili i miei romanzi», e che nel porre degli ostacoli alla creatività , l’acuisce. Si ritirò dalla Fiera del libro di Francoforte del 2009, dedicata alla Cina, dopo che vi furono invitati scrittori dissidenti. È un autore «ufficiale», vice-presidente dell’Associazione degli scrittori cinese (più che filo-governativa), e per anni ha ricevuto un appartamento e uno stipendio dall’Esercito di Liberazione del Popolo, in cui è entrato a far parte nel 1976, staccandosene solo dieci anni fa. Inoltre, di recente, si è unito a una posse di intellettuali che hanno deciso di commemorare gli scritti di Mao Zedong sull’arte e la letteratura (che deve servire il popolo) del 1942, ricopiandoli a mano.
Dopo la furia scatenata contro Oslo per l’assegnazione del premio per la Pace a Liu, forse ora Stoccolma, con il Premio per la letteratura conferito a Mo, riuscirà  a togliere la Norvegia dal purgatorio in cui è sprofondata due anni fa, non riuscendo più a vendere nemmeno un salmone in Cina, per non parlare della caterva di visti rifiutati a chi viaggia con passaporto norvegese. Un ramo d’ulivo dalla Norvegia alla Cina, passando per la Svezia? Vista l’insistenza con cui i media cinesi parlavano di Mo Yan nei giorni scorsi, viene perfino da chiedersi se non ci sia stato qualcosa dietro le quinte a rendere i giornali cinesi così sicuri del fatto loro nel promuovere lo scrittore.
Mo Yan, nom de plume di Guan Moye, significa «quello che non parla». Ma che di certo scrive: nato nel 1955 nello Shandong, Mo Yan, tendenze progovernative a parte, è uno scrittore prolifico e di grande inventiva. L’Accademia di Stoccolma ha giustificato la scelta dicendo che «con realismo allucinatorio ha fuso racconti popolari, passati e contemporanei», riferendosi in modo diretto a quel «realismo magico», di matrice sudamericana, che Mo Yan stesso ha sempre detto di ammirare. La quantità  di storie che escono dalla sua penna (non utilizza infatti computer) è strabiliante: i suoi romanzi e racconti, da Sorgo Rosso aGrande Seno Fianchi Larghi, contengono una miriade di personaggi, di intrecci, intrighi, storie. Una scrittura affascinata dal senso epico della narrazione, dove i protagonisti sono quasi sempre uomini e donne del popolo, frequentemente delle stesse campagne dello Shandong in cui Mo Yan è nato. Ma nel loro orizzonte non c’è il prendere posizioni politiche definitive: loro, sono «gli umili della terra», in balia degli eventi, e dei fenomeni, naturali, bellici e per l’appunto politici, che li travolgono.
Ora che il menestrello delle campagne è stato insignito di tanto onore, la Cina ufficiale esulta, felice di avere finalmente un Nobel autoctono che non deve essere coperto dal velo nero della censura, ma che può essere annunciato in diretta interrompendo le trasmissioni televisive. La Cina dissidente invece molto meno. «Fa parte del sistema», ha commentato l’artista Ai Weiwei, tra le voci più scomode per il governo di Pechino. Ai ha ammesso di non aver letto nessun lavoro di Mo Yan, ma ha definito il premio inutile a meno che il neo-laureato non si pronunci per la scarcerazione di Liu Xiaobo, il dissidente Nobel per la Pace nel 2010. Sul web, circolano i commenti su Liu Xiaobo di Mo Yan a caldo («non voglio parlarne, è una circostanza che non mi è chiara», avrebbe detto in una telefonata), e le varie volte in cui si è rifiutato di criticare l’esistenza della censura, o di utilizzare il peso del suo nome per chiedere maggiore libertà  di espressione e democrazia. E perfino il satirista Hexie Farm ha messo online una fotografia della medaglia Nobel con un grosso bavaglio nero davanti alla bocca, con scritto di fianco: “Mo” bel!


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