Imprenditori e manager smarriti La non crescita è anche colpa loro

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Nei Paesi Bric — gli emergenti Brasile, Russia, India e Cina —, infatti, non si può andare con il campionario racchiuso nella ventiquattrore di cartone.
Archiviate tutte le speranze che possa ritornare il volo del calabrone di novecentesca memoria, che era riuscito a sottrarre per molti anni l’industria borghigiana al trend recessivo, è ormai chiaro che il meccanismo si è inceppato e che il localismo territoriale non è in grado di sostituire la debolezza di una azienda italiana nanerottola e senza fiato («Forti pigmei e deboli watussi», diceva Giacomo Becattini nel lontano 1979).
D’accordo quindi sulla fotografia del male: la scala è indispensabile per rilanciare l’economia della nazione. Sull’approfondimento delle cause e sulle eventuali terapie siamo però ancora in alto mare e sembra proprio che gli analisti abbiano deciso di lasciare in ombra un lato fondamentale del problema. I nostri economisti (quasi tutti macro; ma il micro qualcuno l’ha mai osservato da vicino?) hanno imboccato una pista interpretativa quanto meno parziale, per non dire distorta. Perché le imprese crescono poco? Per le condizioni di business environment legate a una giustizia inefficiente, a un insieme di regole troppo lasco, a una burocrazia asfissiante, a un sistema promozionale del made in Italy approssimativo, al mercato del lavoro sempre più rigido, e così via con le solite litanie che buttano in politica le cause sostanziali della mala industria italiana. In poche parole, le imprese non crescono e non guadagnano per fattori esogeni. E, sulla base di questo convincimento, si imbastiscono e si macinano consigli e policies di tutti i tipi per attivare crescita e sviluppo. Analisi molto lontane dai comportamenti delle aziende. Sguardo alla foresta, ma incapacità  di vedere i singoli alberi. E anche analisi pericolose perché giustificanti la razionalità  di chi poi scappa all’estero piuttosto che resistere e lottare (il dibattito sul caso Fiat Marchionne insegna parecchio).
Nell’economia reale infatti il gioco non si fa solo sulle condizioni esterne, ma si conduce prevalentemente sulle scelte interne, sui processi di impresa, sulle mosse aziendali, sugli acumi del top management. Aspetti che nell’ultima decade hanno determinato lo smarrimento nelle decisioni e il tentennamento dei gruppi dirigenti impauriti e senza visioni, tutti in attesa di condizioni di business environment, appunto, più favorevoli. Con conseguenti scarse occasioni di sano azzardo imprenditoriale e di lanci di cuore oltre l’ostacolo.
Siamo indietro internamente, cari scienziati dell’economia politica! Possiamo anche trovare le buone regole per la foresta, ma gli alberi se non hanno buone radici e buoni propellenti non riusciranno mai a raggiungere le alte vette. Le imprese italiane hanno oggi comportamenti tardivi rispetto alle loro cugine internazionali. Le strategie sono troppo poco determinate e affini a convenienze di breve termine; gli sviluppi del capitale umano sono basati su investimenti formativi esili che producono competenze poco originali e distintive (l’investimento in formazione delle imprese italiane è da anni plafonato sotto l’1% del fatturato annuo); i disegni organizzativi sono rudimentali e burocratici; il management è in gran parte autoreferenziale e poco mobile e scarsamente orientato al rischio e all’apertura (fate il calcolo di quanti sistemi di incentivi manageriali basati sul raggiungimento degli obiettivi sono diffusi e ne avrete la riprova); la governance aziendale si tramanda senza confronti e inclusioni esterne, con estensioni di patti di controllo, piramidi societarie e forme di potere insindacabile; la creatività  di cui tanto si parla nello stivale del bello e del ben fatto non è altro che un pizzico di ritocco incrementalistico senza strappi di discontinuità  o di radicale innovazione. Il tutto condito da una scarsa patrimonializzazione, resa ancora più traballante dalla fuga dei cosiddetti animal spirits, che durante la crisi hanno preferito la rendita immobiliare alla scommessa manifatturiera.
Bisogna essere più severi con la classe imprenditoriale e manageriale (anche perché — con l’evaporazione della politica — qualcuno insiste sul suo ruolo di élite alto borghese e, come tale, di responsabilità  di leadership esemplare nel Paese). Serve un nuovo ripensamento del modello aziendale, oggi decisamente incongruo rispetto al fabbisogno contemporaneo di competitività . Meno concentrazione dunque su eventi congiunturali, su politiche pubbliche e su contesti regolativi, e più al centro le debolezze delle singole imprese e le responsabilità  di chi queste imprese è chiamato a governarle e gestirle.
I campioni ci sono. Si chiamano Zegna, Autogrill, Lottomatica, Luxottica, Ferrero, Campari, Brembo, Sofidel, Fiamm, Amplifon, Coesia e il loro Ebitda (gli utili prima degli interessi, delle tasse, degli ammortamenti) prodotto oltre confine dimostra che comunque ce la si può fare. Dobbiamo convincerci che lo stordimento da pugile suonato che si vede all’interno di molte imprese non può attendere risposte solo dal governo. E non sarà  certo la polemica sul mercato del lavoro o sui possibili aiuti di Stato ad agevolare il rilancio aziendale. A meno che non si desideri che le imprese nostrane si spengano piano piano, rinunciando al loro ruolo shumpeteriano e addossandone la colpa al Sistema Italia che non funziona.


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