LA GUERRA ESPORTATA

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COME se i siriani preferissero una frontiera approssimativa, vaga, quindi superabile, a significare il comune destino dei due popoli. E in particolare il diritto di ingerenza del più potente, quindi del più invadente, dei due. Non a caso per circa trent’anni la Siria ha esercitato un potere diretto sul Libano. I suoi soldati se ne sono andati soltanto nel 2005.
Adesso, con l’attentato di venerdì scorso nel cuore cristiano di Beirut, si ha l’impressione che la guerra civile siriana si stia estendendo al Libano, quasi fosse la propaggine geografica e politica naturale del grande vicino. E infatti lo è. Sono pochi ad avere dei dubbi in merito, anche se per ora si tratta di un segnale d’allarme. Un segnale da prendere sul serio perché potrebbe annunciare il passaggio dalla guerra civile in Siria a una guerra regionale in Medio Oriente.
Quest’ultima è in parte già  in corso poiché varie potenze partecipano “per procura” al conflitto che infuria attorno a Damasco e ad Aleppo. Da un lato, in favore di Bashar al-Assad, l’Iran e la Russia, dall’altro, con i ribelli, l’Arabia Saudita, il Qatar, la Turchia e con variabile, prudente impegno i maggiori paesi occidentali. Nel Libano pluri-etnico e pluri-confessionale sono rappresentate, non tanto in miniatura, tutte le forze a confronto in Siria. Basta poco perché si riaccenda, a Beirut, in seguito al contagio siriano, la guerra civile che ha dissanguato il paese per anni, a partire dal 1975.
Ma ritorniamo ai confini incerti, i quali hanno un alto valore non solo simbolico. Sul percorso Nord-Sud, lungo il massiccio dell’Anti- Libano, come su quello Est-Ovest, lungo il Nahr al-Kabir, le linea di confine tra Siria e Libano resta approssimativa. La regione di  Deir el-Achayer, in prossimità  della strada per Damasco, è ad esempio considerata territorio nazionale dai siriani come dai libanesi. Altro esempio la fattoria di Shebaa, nel Sud del Libano, occupata da Israele dal 1967, e rivendicata sia dalla Siria sia dal Libano.
Fino a quattro anni fa la situazione era ancora più confusa. E’ infatti soltanto nell’agosto 2008, vale a dire più di sessant’anni dopo l’indipendenza dei loro rispettivi paesi, che il presidente libanese Michel Suleiman e il presidente siriano Bashar el-Assad hanno deciso di stabilire normali relazioni diplomatiche. Era abbastanza strano che due nazioni limitrofe, membri delle Nazioni Unite e della Lega Araba, non avessero mai ufficializzato i loro intensi (e agitati) rapporti con un ovvio scambio di ambasciatori. L’anomalia veniva attribuita a diversi motivi. Il meno credibile dei quali era la dichiarata inutilità  di rapporti diplomatici tra due paesi gemelli, che per secoli, sotto l’impero ottomano, avevano fatto parte dello stesso insieme territoriale. Il più credibile era la volontà  della Siria di non riconoscere ufficialmente l’esistenza di un paese che gli era stato sottratto da accordi intercorsi tra le potenze occidentali, vincitrici (nel 1918) della Grande Guerra.
Per il regime di Damasco, impegnato da diciannove mesi in una guerra civile senza visibili soluzioni, il Libano resta un terreno di sfogo, da usare nei casi di emergenza. In questa stagione offre l’opportunità  di allargare il conflitto al fine di coinvolgere la società  internazionale.
La quale sarebbe costretta a intervenire per spegnere un fuoco che potrebbe dilagare in una zona strategica di importanza mondiale. Trovandosi in una situazione disperata, Bashar el-Assad può insomma usare il piccolo, fragile ma esplosivo Libano come un kamikaze usa un’autobomba. Gli ingredienti ci sono.
L’attentato di venerdì scorso era firmato Damasco. Sono pochi ad avere dubbi in proposito. L’esplosione nel quartiere cristiano di Ashrafieh era mirata e non ha
mancato l’obiettivo. La principale vittima, il generale Wissam al-Hassan, era il nemico numero uno di Damasco. Nella sua veste di capo dell’intelligence delle Forze di sicurezza interne, il generale al-Hassan aveva contribuito a smascherare (per conto del Tribunale speciale internazionale per il Libano) la rete degli assassini del primo ministro Rafik Hariri, ucciso il 14 marzo 2005. E sempre lui, al-Hassan, aveva intercettato nello scorso agosto l’ex ministro Michel Samaha mentre si preparava a consegnare una ventina di cariche di TNT destinate a compiere vari attentati in Libano, sotto la direzione di Ali Mamluk, uno dei capi dell’intelligence siriana.
Il grande investigatore Wissam el-Hassan era un sunnita, considerato favorevole all’insurrezione contro Bashar el-Assad, ma egli agiva in un Libano governato da una coalizione giudicata favorevole al regime di Damasco. Le cariche, se non proprio i poteri reali, a Beirut, sono suddivise, secondo la Costituzione, tra i rappresentanti delle principali comunità . Il presidente è un cristiano maronita; il primo ministro un musulmano sunnita; il presidente del Parlamento un musulmano sciita. La presenza nel governo del Partito di Dio (Hezbollah), espressione anche armata della comunità  sciita, e con stretti legami con l’Iran, a sua volta principale alleato di Bashar el-Assad, dà  al potere esecutivo un connotato che lascia scarsi dubbi.
Per quei confini incerti, vaghi, e quindi permeabili, appena descritti, ed anche per la comune storia dei due popoli, adesso divisi in nazioni separate, la società  libanese vive, è influenzata e teme la tragedia siriana. Ed è spaccata in due: con Bashar el-Assad sono schierati gli Hezbollah e in generale gli sciiti; con l’insurrezione contro Assad in generale i sunniti e i cristiani. Ma la spaccatura è tutt’altro che netta. Nulla è geometrico in Libano. E le alleanze sono instabili.
Una notte, nei primi anni Ottanta, durante la guerra civile, mi trovai in mutande, in un corridoio dell’Hotel Cavalier di Beirut, accanto all’ambasciatore Franco Luccioli Ottieri. Una banda di guerriglieri armati ci aveva tirati giù dal letto e frugava nei nostri bagagli. L’ambasciatore Ottieri dormiva nella camera attigua alla mia (essendo la sua residenza insicura) e quindi abbiamo condiviso quella piccola, breve avventura, più scomoda che pericolosa. Durante la conversazione notturna arrivammo alla conclusione che i libanesi erano «degli italiani al cubo ». Credo sia ancora così.
Un anziano giornalista e vecchio amico, libanese e cristiano (padre greco ortodosso e madre maronita), che abita proprio ad Ashrafieh, dove venerdi è avvenuta la strage, mi diceva venti giorni fa: «Aspettiamo di vedere quel che faranno gli hezbollah». Intendeva dire cosa ordinerà  loro di fare il regime di Damasco o quello di Teheran. Forse la bomba di venerdì era già  una prima risposta. Ammesso che gli hezbollah, come molti pensano, siano in qualche modo implicati (per conto di Damasco) nell’attentato di Ashrafieh, non va trascurato il fatto che essi hanno altre risorse, più sofisticate delle azioni terroristiche. Lo dimostra il drone, made in Iran, che avrebbero lanciato dal Sud del Libano e che sarebbe penetrato all’inizio del mese nello spazio aereo israeliano.


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