La bomba che fa paura

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WASHINGTON. Credevamo di averla esorcizzata o almeno rinchiusa nella cripta degli incubi di una generazione, ma l’arma della fine del mondo è sempre qui con noi. Quella Bomba che torna ad allungare la propria ombra sul nostro tempo, proiettata oggi dall’Iran, non ci lascerà  mai e non potrà  essere mai “disinventata”.
La sera del 6 agosto 1945, quando esordì nella storia polverizzando Hiroshima, il presidente americano Harry Truman «ringraziò Dio» per averla «data a noi invece che ai nostri nemici» e pregò perché quello stesso Dio «ci guidasse a usarla per i Suoi fini». È una tragica ironia se oggi coloro che la vorrebbero, e forse la stanno producendo, invochino di nuovo il nome di un Dio che somiglia a quella divinità  che uno sconvolto Robert Oppenheimer, guardandola esplodere, definì «il distruttore di mondi».
Dalla “Jornada del Muerto”, il viaggio del morto come si chiamava il deserto del New Mexico nel quale esplose il prototipo, alla cruda illustrazione dei possibili progressi iraniani fatta da Benjamin Netanyahu alle Nazioni Unite giovedì scorso, la “Bomba” è il filo rosso, il fiume di lava sotterraneo che da ormai quasi settant’anni lega la nostra storia e corre sotto la crosta delle tante, piccole guerre, senza eruttare. L’umanità , dopo averne visti gli effetti su due città  giapponesi, aveva capito, come tutti i “War Games”, le simulazioni, avevano dimostrato, che nessuno può vincere una guerra atomica. Ma la tentazione dell’onnipotenza che il possesso dell’atomica genera è stato più forte della ragione.
Quell’arma che anche Albert Einstein implorò Franklin Delano Roosevelt di costruire, nel 1939, prima che ci riuscisse Hitler, si è diffusa come una pestilenza che nessun Trattato anti-proliferazione, nessun accordo fra i primi detentori, Usa e Urss, nessuna agenzia internazionale sono mai riusciti a circoscrivere. Se ora i rottami dell’Unione Sovietica e gli Stati Uniti hanno ridotto la demenziale quantità  di testate dal picco di 60mila raggiunto alla fine della Guerra Fredda a un totale — pur sempre insensato — di 10mila totali, il “Club Atomico” ha continuato ad accogliere nuovi e sempre più instabili membri.
La “Bomba” è da tempo negli arsenali di Cina, Francia e Regno Unito, le sole tre nazioni, oltre a Russia e Usa, autorizzate a possederne. Ma ne hanno a dozzine l’India e il Pakistan, con i vettori balistici necessari per lanciarle, Israele, molto probabilmente la Corea del Nord e, se il premier israeliano ha ragione, fra meno di un anno anche l’Iran. Tentarono di produrla, o di acquisirla, la Siria del vecchio Assad, la Libia di Gheddafi e l’Iraq di Saddam Hussein, prima del 1991.
Di fronte al gonfiarsi del fiume di lava radioattiva sotterranea, e ai rivoli che affiorano dalla crepe della crosta, aperte sempre e naturalmente per “legittima difesa” secondo i proprietari, oggi fa quasi tenerezza rivedere le immagini, e rivivere i ricordi, dei decenni nei quali noi tutti “figli dell’Atomica” siamo cresciuti. I filmetti di propaganda internazionale e interna prodotti dal Pentagono e dall’Agenzia per l’energia nucleare americana riflettono prima il sussiego della potenza che si credeva monopolista della Bomba nel nome di Dio e poi raccontano il panico, di fronte alla scoperta che appena quattro anni dopo Hiroshima e Nagasaki, esplose nel 1949 “Pervaya
Molniya”, il “Primo Fulmine”, la copia di “Fat Boy”, l’ordigno che annientò Nagasaki.
Nei cartoni animati proiettati nelle scuole, negli uffici, nelle fabbriche americani, bambini e adulti erano invitati dalla tartaruga Bert a fare come lei, a cercare rifugio, in mancanza di guscio, sotto i letti, i banchi, le scrivanie. “Duck and Cover”, abbassati e copriti, divenne la colonna sonora per milioni di americani cresciuti nella certezza che i “rossi” volessero annientarsi. Duecentoventi modelli diversi di rifugi anti-atomici, da semplice cassoni individuali foderati di piombo a mini- bunker di cemento armato che padri di famiglia con la vanga e madri alla betoniera costruivano in giardino, offrivano l’effimera speranza di sopravvivere almeno per qualche giorno all’attacco. Senza pensare a che cosa avrebbero trovato quando sarebbero usciti. I più fortunati, fu detto all’epoca, sono quelli che moriranno subito, in un attacco nucleare.
La psicosi da annientamento atomico fu il prezzo che l’Europa occidentale, e l’America, pagarono come contrappasso alla propria ritrovata prosperità . Attori nei panni di medici spiegavano che l’ansia da bomba era “atomite”, una forma di paranoia che ingigantiva gli effetti della radiazioni. Ammiragli spiegavano agli abitanti dell’atollo di Bikini, dove fu testata la ancora più micidiale, prima bomba all’idrogeno, che tutto era fatto per il loro bene. Nel documentario del 1982, Atomic Cafè si vede la sequenza commovente degli indigeni di Bikini che se ne vanno, deportati su una nave della Marina americana cantando in coro “You are my sunshine”, “Tu sei il mio sole”. Certamente ignorando che quella bomba avrebbe raggiunto e superato la luminosità  e il calore proprio del Sole. Fu dopo l’incontro fra Reagan e Gorbaciov, prima a Ginevra nel 1985 quando i due leader si appartarono soltanto con gli interpreti in una casetta nel bosco e soprattutto a Reykjavik, in Islanda, dove Reagan sbigottì il russo, e i propri generali, proponendo l’Opzione Zero, la distruzione dell’intero arsenale, che la lava sarebbe tornata a scorrere sotto la superficie. Finalmente si poteva esalare, dopo avere trattenuto il fiato per quarant’anni, quando tre volte il mondo era arrivato a pochi minuti dallo scenario Stranamore, dallo scontro nucleare.
Avevamo sfiorato il volto di Armageddon nella Corea dove lo stesso Truman aveva ipotizzato l’uso di armi atomiche per fermare i cinesi, prima di ripensarci e di licenziare in tronco il generalissimo MacArthur, che insisteva. Lo vedemmo sogghignare nelle acque del Caribe nel 1963, dove l’invasione americana di Cuba era già  pronta, prima che le navi di Krusciov invertissero la rotta, e gli americani ignoravano che reparti sovietici sull’isola già  possedevano piccole testate tattiche antisbarco. Ai pezzi grossi della Casa Bianca erano già  stati distribuiti i “pass”, le chiavi magnetiche, per entrare nella caverne predisposte sui monti Catoctin del Maryland. E pochi seppero che nel 1980, nelle ore della ribellione polacca che avrebbe demolito l’impero sovietico, una manovra di routine delle forze Nato fu fraintesa dai generali russi come la preparazione di un assalto in forze. La risposta nucleare preventiva era già  pronta, prima che una disperata spia russa nel quartiere generale proprio della Nato a Evere, in Belgio, riuscisse a convincere Mosca che erano soltanto manovre.
Per quasi vent’anni, dalla morte di Breznev nel 1982 al 2001, l’ombra di Hiroshima era sembrata rimpicciolirsi, il fiume lavico raffreddarsi, quando anche la Cina della Rivoluzione Culturale si era convertita al «fate i soldi, non la guerra». Ma in un giorno di settembre a Manhattan, l’isola che dette il nome al progetto atomico, in un’altra mattinata chiara come quella di agosto sopra Hiroshima, i piazzisti della ennesima guerra santa hanno riaperto il timore che qualcuno, incurante di vite e di morti, possa riprendere in mano quel filo rosso. Le lancette di quell’orologio della fine del mondo che dal 1947 i fisici dell’Università  di Chicago, dove Enrico Fermi lavorò, regolano, si sono rimesse in movimento e la mezzanotte non era mai stata così vicina. Il dottor Stranamore è emigrato, ma continua a lavorare.


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