L’ESERCITO DEI CARNEFICI

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E un assassino di 22 anni, che va a cercarle con il coltello in tasca, e prima ha pubblicato sulla sua pagina di Facebook, in una cornice colorata riempita di angioletti e cuoricini, parolette sulla “perdita di qualcuno che ami”. “Parole – leggo nei primi commenti – che stridono con il delitto…”. Temo di no, che non stridano. Temo che “la perdita di qualcuno che ami” significhi, per quello sciagurato, la scelta della “sua” ragazza di lasciarlo. Ammazzarla, perderla per sempre a se stessa e al mondo, è per lui il risarcimento della perdita. Fra quei pensierini – sdolcinatezza e coltello vanno volentieri assieme – c’era anche questo: “Se potessi esprimere un desiderio… non chiederei un amore perché un amore si conquista…”. Si dice così in amore, conquistare: salvo ripensare al senso terribile che il verbo prende all’improvviso. Non tanto all’improvviso, del resto, né “all’ennesima lite”, se c’era quel coltello pronto alla riconquista.
Il centesimo assassinio di donna ha questi tratti tremendamente penosi, che lo sottraggono all’abitudine e alla statistica. E tuttavia appartiene anche al catalogo degli altri che l’hanno preceduto e che lo seguiranno, quasi un assassinio di donna ogni due giorni. Qui sono due ragazze di Palermo, amate, brave, belle. Ma la violenza di cui sono vittime è un’epidemia che accomuna donne ammazzate, qualunque età  abbiano, qualunque rango. Liceali con la media del nove e prostitute romene. Non sono loro a somigliarsi, ma i loro carnefici, uomini che uccidono donne, uomini che non sanno resistere alla perdita, e se ne consolano ammazzando, uomini che amano troppo per lasciar esistere fuori dal loro guinzaglio la donna che amano, uomini troppo orgogliosi per sopportare la ferita alla loro vanità . Sono tanti i siti che tengono il conto degli accessi e dei dettagli di questa epidemia, e si moltiplicano i libri che li ricapitolano. E però si moltiplicano anche violenze e uccisioni. Nell’estate appena passata, donne assassinate selvaggiamente erano incinte, anche alla vigilia del parto. L’orrore ha varianti infinite, e un’unica radice. Sono quasi sempre crimini di mariti, fidanzati, amanti, a volte padri e fratelli. Uomini che, una volta divenuti padroni di una donna — alla sua nascita, o al suo assenso, o alla sua conquista — non accetteranno più di esserne espropriati, da lei o da un rivale: che è lo stesso, perché ai loro occhi lei non esiste per sé, ma solo per un altro padrone. Hanno dalla loro, i poveri assassini di donne, una millenaria compassione, un’aura di grandiosità  fatale e mai davvero sfatata, sicché ancora del loro gesto passano per vittime, anche quando, appena ieri, il codice abbia rinunziato a esonerarli se non a render loro onore. Quel pregiudizio anzi si rinvigorisce in proporzione al modo in cui cresce la libertà  e la voglia di libertà  delle donne. Non è più, non solo, un resto dell’uomo antico, è anche un tratto dell’uomo all’ultimo grido. Cala il numero degli omicidi, cresce quello dei femminicidi. Guardate quanto generosamente si impiega il termine: raptus. Anche quando si sono fatti chilometri con un coltello scaldato nella tasca.
Non so ancora se a Palermo la giovane vittima mancata — e con quale mutilazione dovrà  sopravvivere, la metà  di lei — avesse subìto minacce e le avesse confidate o denunciate. Nella maggioranza di queste tragedie è la norma, e nemmeno il più forte disgusto per la galera, quando non sia un modo necessario a impedire il male fatto ad altri, mi impedisce di pensare che occorra trattare come violenze — fino all’omicidio — già  compiute le minacce e le molestie accertate vere e gravi di uomini alle “loro” donne. Salvo piangere il giorno dopo su una donna trucidata in un raptus con 50 coltellate dal “suo” uomo cui, tutt’al più, era stato consegnato un foglio che lo diffidava dal frequentare il quartiere della “sua” donna.


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