«Trattativa, insinuati sospetti su di me» Suicida il boss che uccise il giudice Saetta

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SCANDICCI (Firenze) — «L’affetto e la stima che le ho dimostrato in questi anni restano intangibili, neppure sfiorati dai tentativi di colpire lei per colpire me. Ce ne saranno ancora, è probabile, li fronteggeremo insieme». Ecco le parole con cui il 19 giugno Giorgio Napolitano respinse le dimissioni che Loris D’Ambrosio, suo consigliere per gli affari della giustizia, aveva formalizzato il giorno prima. Confortato da quella prova di stima, D’Ambrosio decise di rimanere al proprio posto, ma, meno di un mese dopo, fu stroncato da un infarto. Che lo colpì, appena sessantacinquenne, al culmine di «una campagna violenta e irresponsabile di insinuazioni ed escogitazioni ingiuriose», come scrisse il presidente della Repubblica in un veemente necrologio. E come ripete ora, riferendosi a se stesso.
Quel che non si è mai saputo, da allora, è con quali argomenti il consigliere si fosse spiegato, con il suo capo e non solo con lui, rispetto alle polemiche che lo avevano investito a margine dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia, per essere stato destinatario di una serie di telefonate (intercettate dalla Procura di Palermo) dell’ex ministro Mancino, indagato per falsa testimonianza. La sua autodifesa l’ha resa pubblica ieri Napolitano, pubblicandola a chiusura di un libro che raccoglie i suoi interventi in materia di giustizia. E, a scorrerla adesso, ha i toni drammatici di un testamento. In cui sono riassunte pure alcune esplicite accuse.
«Amarezza» personale a parte, D’Ambrosio nega di aver «mai esercitato pressioni o ingerenze che, anche minimamente, potessero tendere a favorire il senatore Mancino». Insomma, aggiunge, «non sono stato partecipe di alcun “patto col diavolo” per impedire che si raggiungano le verità  scomode del “Terzo livello”» del negoziato tra Stato e mafia, anche se c’è stato «qualche politico o qualche giornalista che mi ha inserito all’interno della zona grigia» dove si cancellano le tracce e si occulta. Di più. Il consigliere, che quand’era magistrato aveva lavorato sui fronti del terrorismo e della mafia (ad esempio accanto a Giovanni Falcone), avanza anche alcuni rilievi tecnici, chiamiamoli così, su quell’indagine. Segnala che in tanti — dal pg della Cassazione al procuratore nazionale antimafia, dal Csm alla Commissione antimafia — «sanno bene che criticità  e contrasti esistono, e sono gravi, ma che ad essi non si riesce a porre rimedio». E «mi ha turbato — incalza D’Ambrosio — leggere nei resoconti di un’audizione all’Antimafia le dichiarazioni di chi ammette che della cosiddetta trattativa uffici giudiziari danno interpretazioni diversificate e spesso configgenti, ma che ciò è fisiologicamente irrimediabile». Quei contrasti, puntualizza, «non giovano al buon andamento di indagini che imporrebbero, per la loro complessità , delicatezza e portata, strategie unitarie, convergenti e condivise, oltre al ripudio di metodi investigativi non rigorosi, o almeno non sufficientemente rigorosi nella ricerca delle prove e nella loro verifica di affidabilità ». Un modo di alludere, forse, alla gestione — «con approcci disinvolti», verso i quali andrebbe pronunciata una «abiura» — di certi pentiti (da Ciancimino a Scarantino) che hanno avuto un ruolo decisivo nella vicenda.
Un affaire che, per via delle telefonate di Mancino (a D’Ambrosio e allo stesso Napolitano) in cerca d’aiuto, ha avuto aspri rimbalzi polemici pure sul Colle. Perciò il consigliere immagina che «cercheranno di colpire me per colpire lei», consapevole che «d’ora in avanti ogni più innocente espressione sarà  interpretata con cattiveria e inquietante malvagità ». Non basta. Nella lettera con cui vorrebbe congedarsi, lascia intendere che, tra il 1989 e il ’93, fu testimone di «episodi» — dei quali ha fatto cenno alla sorella di Falcone, Maria — che lo «preoccupano» e lo «fanno riflettere». Episodi misteriosi, che lo hanno «portato a enucleare ipotesi» che gli sarebbe piaciuto approfondire, se non fosse stato «preso dal timore di essere considerato solo un ingenuo scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi». Anzi, non nasconde che, dopo aver «letto e riletto le audizioni all’Antimafia di protagonisti e comprimari di quel periodo», avendole evidentemente giudicate viziate da contraddizioni pericolose, ha «desiderato tornare» pure lui «a fare indagini».
Fin qui il testamento-denuncia di D’Ambrosio. Che il capo dello Stato ha voluto far conoscere ieri sera, a Scandicci, a margine del suo discorso alla scuola di formazione dei magistrati. Un discorso nel quale ha voluto tra l’altro fugare ogni dubbio su come la pensi in questa faccenda. «Considero un imperativo e un dovere comune giungere alla definizione dell’autentica verità  sulla strage di via D’Amelio, sull’assassinio di Paolo Borsellino». Certo, a patto che si proceda «su solide basi d’indagine, per fugare ogni ombra e sanzionare ogni colpa che possano aver pesato su quei tragici eventi e sul successivo sviamento delle indagini e delle relative conclusioni processuali».


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