Obama II, puntare tutto su economia e sociale

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Nelle prossime settimane si tengono tre elezioni decisive il cui esito disegnerà  il nuovo volto del mondo. La prima, il 7 ottobre, è quella del Venezuela. Se – come i sondaggi prevedono – Hugo Chavez vincerà , sarà  una grande vittoria per l’insieme del campo progressista in America latina, e la garanzia che i cambiamenti in corso continueranno.
La seconda, l’8 novembre, si tiene al XVIII congresso del Partito comunista cinese. È assolutamente certo che Ping Xi sarà  eletto nuovo segretario generale del Pcc al posto di Hu Jintao, prima tappa della sua probabile elezione, entro pochi mesi, alla presidenza della Cina. Xi Jinping diventerà  il leader della principale potenza emergente nel mondo, della seconda economia planetaria e del rivale strategico di Washington.
La terza elezione, il 6 novembre, dovrà  stabilire se il candidato democratico Barack Obama resterà  presidente degli Stati uniti per altri quattro anni o sarà  sostituito dal candidato repubblicano Mitt Romney. È certamente vero che un cambiamento di presidente negli Usa non preoccupa eccessivamente il potere finanziario (che decide in ultima istanza), né modifica le opzioni strategiche fondamentali della potenza americana. Tuttavia, nel contesto attuale di crisi internazionale, questa elezione non è meno importante.
A priori, Barack Obama aveva poche possibilità  di rinnovare il suo mandato. Ma l’assassinio dell’ambasciatore degli Stati uniti in Libia e gli attacchi contro l’ambasciata statunitense in Egitto – avvenuti l’11 settembre, undici anni dopo gli attentati del 2001 – hanno improvvisamente fatto entrare le questioni di politica estera, fino allora assenti, nella campagna elettorale. E senza dubbio questo non è stato senza conseguenze.
Certo, nessun candidato ha mai vinto una elezione (o rielezione) presidenziale negli Usa sulla base di un progetto o di un bilancio di politica estera. Si può dire, però, che questi recenti eventi tragici hanno giovato a Obama nella misura in cui, al contrario, il suo rivale repubblicano Mitt Romney è apparso superficiale e irresponsabile. Ben lontano, in ogni caso, dall’immagine che l’opinione pubblica ha di un vero statista.
Se si aggiunge l’effetto disastroso che ha causato, pochi giorni dopo, l’uscita di un video in cui Romney dice con disprezzo che la metà  del paese – gli elettori di Obama – è costituito da «vittime», da «perdenti» e da «assistiti», si può dire che il presidente uscente, poche settimane prima delle elezioni, ritrova qualche possibilità  di vincere.
Non era scontato. Dopo aver fatto molte promesse durante la sua campagna 2008, Barack Obama ha molto deluso. Egli stesso ha ammesso di aver venduto troppi sogni e troppe illusioni. La sua popolarità  è quindi caduta da molto in alto. Al punto che ci si chiede come un uomo che era riuscito ad attirare circa due milioni di persone alla sua cerimonia di investitura, nel gennaio 2009, e ha più di 19 milioni di follower sul suo account Twitter, abbia potuto precipitare in questa maniera.
Intellettualmente brillante, il primo presidente nero degli Stati uniti non è riuscito a trasformare l’America. Il denaro domina tuttora la vita politica, le istituzioni rimangono paralizzate dagli ostruzionismi del Congresso, l’economia non è in grado di ripartire, e l’egemonia globale di Washington è più contestata che mai.
È vero che, arrivando alla Casa Bianca nel gennaio 2009, il nuovo presidente è stato messo immediatamente di fronte a una crisi economica, finanziaria e industriale di una gravità  paragonabile a quella della Grande Depressione. Il paese aveva perso 8 milioni di posti di lavoro… Ma Obama ha dato l’impressione di non accorgersene e ha continuato nel suo ruolo elettorale di Grande Incantatore. Non ha misurato la gravità  del naufragio. E ha fallito l’inizio del suo mandato.
Avrebbe dovuto – subito – sfruttare la sua grande popolarità  per affrontare – immediatamente – gli eccessi irrazionali della finanza e delle banche. E ristabilire la priorità  della politica sull’economia. Non l’ha fatto. Così, la sua presidenza ha esordito su una base sbagliata.
Barack Obama avrebbe dovuto anche utilizzare il sostegno della nazione per mettere nell’angolo il Partito Repubblicano e dispiegare senza ritardi l’insieme delle riforme. Avrebbe dovuto rivolgersi direttamente al popolo americano per fare pressione sul Congresso. E costringerlo a votare le leggi fiscali e sociali che avrebbero permesso di ricostruire lo stato sociale. Ancora una volta, Obama ha scelto la prudenza. È stato un errore.
Non c’è dubbio che le sue riforme sulla sanità  e sulle regole di Wall Street sono state importanti. Ma le ha ottenute a pezzi e a bocconi. La riforma sanitaria è stata elaborata su un modello conservatore, che ha spinto milioni di americani verso i mercati privati delle assicurazioni. La riforma della regolamentazione dei mercati finanziari non è stata, a sua volta, di portata sufficiente a frenare le peggiori pratiche del settore bancario. Infine, la Casa Bianca non ha promosso a sufficienza l’Employee Free Choice Act, la legge adottata nel marzo 2009 che garantisce ai lavoratori la possibilità  di formare più facilmente dei sindacati.
Per altro, Obama aveva promesso di cambiare il modo di funzionare della vita politica americana, in particolare al Congresso. Non l’ha fatto. Come Franklin D. Roosevelt negli anni Trenta, Obama avrebbe dovuto mobilitare il popolo americano per condurre la sua battaglia legislativa. Non ha osato farlo. E ha finito per assomigliare ai politici di Washington che aveva tanto criticato. E che gli americani detestano. Così, ha mal difeso le sue stesse riforme agli occhi del popolo e si è accontentato di qualche manovra di corridoio per cercare di guadagnare deputati dell’opposizione alla sua causa… Di colpo, sono stati i repubblicani a rivolgersi direttamente al popolo…
In linea di principio, i democratici disponevano di tutto il necessario – sulla scena politica – per governare. Controllavano i poteri esecutivo e legislativo: la presidenza, la maggioranza alla Camera dei rappresentanti e la maggioranza del Senato. Normalmente, il controllo di queste due leve (presidenza e Congresso) è sufficiente per guidare un paese. Ma questo non è più il caso nelle nostre società  post-democratiche. Perché, nonostante la loro legittimità , Obama e il Partito democratico avevano solo uno dei tre strumenti indispensabili per governare oggi. Gliene mancavano due: i grandi media (i repubblicani invece hanno Fox News). E un possente movimento popolare nato nelle strade (i repubblicani hanno il Tea Party). Obama e i democratici non aveva né l’uno né l’altro: quindi erano impotenti.
E sono stati sopraffatti dalla destra in un periodo di disastro sociale. La destra americana ha avuto il monopolio delle proteste di piazza, delle lotte sul terreno, e anche della battaglia delle idee… Il risultato: durante le elezioni di medio termine, nel novembre 2010, i democratici hanno perso la maggioranza alla Camera dei rappresentanti.
È stato quindi necessario aspettare praticamente l’inizio della campagna elettorale perché Barack Obama capisse infine che doveva uscire dalla palude politica di Washington, e scegliesse una strategia rivolta ai movimenti popolari. È a Denver, nel mese di ottobre 2011, che – per la prima volta dal suo arrivo alla Casa Bianca – Obama ha mobilitato direttamente la sua base popolare chiedendo aiuto: «Ho bisogno di voi! Ho bisogno che vi facciate sentire! Ho bisogno che vi impegniate! Ho bisogno che andiate all’attacco! Ho bisogno che vi rivolgiate al Congresso per dire ai vostri deputati: ‘Fate il vostro lavoro!’».
Questa nuova strategia si è rivelata efficace. I deputati repubblicani si sonno ritrovati improvvisamente sulla difensiva. Un nuovo Obama più aggressivo e in piena risalita nel sondaggi ha cominciato a emergere. Dopo di che ha azzardato nuovi colpi di audacia: si è dichiarato a favore del matrimonio gay e a favore di una politica diversa nei confronti degli immigrati, mettendo fine alla deportazione indiscriminata degli immigrati privi di documenti. La sua popolarità  è cresciuta.
Nel frattempo, i repubblicani eleggevano, a rappresentarli nella corsa per la Casa Bianca, il miliardario Mitt Romney, un ex amministratore delegato del fondo di investimento (private equity fund), Bain Capital. Il quale ha subito concentrato le sue critiche su Obama denunciando il «bilancio catastrofico del mandato» del presidente: 23 milioni di americani disoccupati o precari, un deficit di bilancio mai visto negli Stati uniti, e un debito sovrano aumentato del 50 per cento in quattro anni fino a raggiungere l’equivalente del Prodotto interno lordo.
Romney si basava su indagini in base alle quali il 54% degli elettori dichiarava che Obama non meritava un secondo mandato, mentre il 52% giudicava di vivere «meno bene oggi di quattro anni fa».
Mitt Romney ha martellato su questo per tutta la campagna. Dimenticando di segnalare che i sondaggi rivelavano come lui stesso (Romney) avesse difficoltà  a convincere la gente che egli fosse interessato a loro. D’altra parte, i sondaggi rivelavano anche che gli elettori erano per lo più d’accordo con il presidente uscente sulla maggior parte delle questioni importanti: dalla riforma sanitaria alla politica fiscale. Credevano anche che, in ogni caso, Obama li avrebbe difesi meglio di Mitt Romney…
Poi ci fu la nomina di Paul Ryan, presidente della commissione bilancio della Camera dei rappresentanti, come vice di Mitt Romney. Da quel momento, Barack Obama ha invertito i ruoli abituali di una campagna presidenziale. Si è presentato come challenger all’attacco invece di difendere il suo bilancio. Non è stato più lui a giustificarsi per le sue difficoltà  nel rilanciare l’economia, ma ha costretto i repubblicani a spiegare il loro impopolare piano di tagli al bilancio, la loro promessa di «tagli alle tasse per i milionari» e l’eliminazione degli aiuti alle famiglie a basso reddito. Obama è così diventato il campione della classe media, il più grande segmento della popolazione degli Stati uniti e quindi dell’elettorato.
Nel suo discorso del 6 settembre davanti alla Convention democratica, il presidente, ancora una volta, non ha difeso il suo bilancio, a eccezione… della politica estera. Ha ricordato la morte di Bin Laden, il ritiro militare dall’Iraq e la sua decisione di ritirarsi anche dall’Afghanistan.
Ci sarebbe tuttavia molto da dire sul suo bilancio di politica estera che è complessivamente molto deficitario. Tanto in America latina (Guantanamo, Cuba, Venezuela, colpi di stato in Honduras e Paraguay, ecc.). che in Medio Oriente (rivolte arabe, Libia, Siria, Iran, Israele-Palestina, ecc.).
Ma, l’abbiamo detto, non è sulla politica estera che si giocheranno le elezioni. Sarà  sulle questioni economiche e sociali. Che, in questi ultimi mesi, sono migliorate. La crescita, per esempio, è tornata positiva (più 0,4% in media a trimestre). La situazione dell’occupazione è molto migliore (circa un milione di posti di lavoro sono stati creati nel corso degli ultimi sei mesi). Salvata dal fallimento dallo Stato, la General Motors ha ripreso nei primi mesi del 2012 a Toyota il posto di primo produttore di automobili al mondo. Anche l’immobiliare va meglio. La Borsa è aumentata del 50% dal 2009. E i consumi delle famiglie ripartono. Questa recente ripresa sarà  sufficiente a garantire la rielezione di Barack Obama?
* Direttore dell’edizione in lingua spagnola di Le Monde diplomatique
(trad. it di Pierluigi Sullo, www.democraziakmzero.org)


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