Obama-Romney, stessa idea di mondo

by Sergio Segio | 24 Ottobre 2012 7:45

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BOCA RATON (Florida) — Strano sport, quello delle campagne elettorali: Barack Obama vince due confronti su tre — quello della scorsa settimana a Long Island e quello di ieri qui in Florida, alla Lynn University — ma perde il campionato dei dibattiti. Esce più debole di come era entrato nella breve stagione dei faccia a faccia con Mitt Romney. «Niente di compromesso —, minimizza il suo stratega David Plouffe —: abbiamo solo perso il vantaggio che avevamo accumulato in un settembre che era stato disastroso per il leader repubblicano. Siamo ancora convinti di farcela, abbiamo la strategia migliore negli Stati-chiave. Ma sarà  un testa a testa fino all’ultimo. Chi pensava a una vittoria del presidente con 6 o 7 punti di margine era fuori strada, l’abbiamo detto fin dall’inizio: questo non è il 2008».
Le metafore sportive si sprecano, quando si tratta di descrivere questa gara sempre più incerta tra i due candidati alla Casa Bianca, ma i paragoni devono fermarsi davanti alla matematica: il ko iniziale subito dal presidente a Denver, quello che ha cambiato il corso della campagna, pesa più delle due successive vittorie ai punti di Obama, utili più a ridare morale ai suoi sostenitori che a sfondare al centro e tra gli incerti. Gli instant poll dopo Boca Raton incoronano Obama (vince 48 a 40 in quello della Cnn, addirittura 58 a 23 per la Cbs), ma i sondaggi sulle intenzioni di voto eseguiti dopo la vittoria del presidente una settimana fa, alla Hofstra University, indicano che il recupero di Romney non si è fermato. Difficilmente il dibattito di ieri capovolgerà  questa situazione.
Sempre aggressivo ma meno brillante rispetto a una settimana fa, il leader democratico ha comunque prevalso su un Romney a sua volta meno disinvolto sulla politica estera. Salvo che per un paio di scontri dialettici, il candidato repubblicano ha preferito evitare il muro contro muro con Obama e ha perfino rinunciato ad attaccare il presidente, come ci si aspettava, su incertezze e possibili errori di Cia e Dipartimento di Stato a Bengasi: l’attacco al consolato costato la vita all’ambasciatore Stevens.
Per il resto Romney, pur bocciando Obama e i risultati della sua gestione, si è detto d’accordo con una serie di scelte strategiche fatte dalla Casa Bianca: dal ritiro dall’Afghanistan entro il 2014 al sostegno alla Primavera araba, all’abbandono di Mubarak e alla conferma dell’alleanza col Pakistan nonostante il comportamento ambiguo di questo Paese nella lotta contro il terrorismo e l’insorgenza talebana. Complimenti a Obama per aver eliminato Bin Laden e molti capi di Al Qaeda (che, però, per Romney, è ancora viva e vegeta e non morente, come sostiene il presidente). In fondo anche sui temi di più aspra contrapposizione — Siria e nucleare iraniano — il candidato repubblicano, pur accusando la Casa Bianca di impotenza davanti ai massacri ordinati da Assad e di non spalleggiare adeguatamente Israele, alla fine vuole aiutare i ribelli di Damasco e Aleppo ma senza mandare soldati e armi Usa, mentre, per piegare il regime di Teheran, punta più sull’efficacia delle sanzioni volute da Washington che sull’opzione militare.
A fine dibattito un esperto di affari internazionali come Michael O’Hanlon della Brookings dice di faticare a vedere due distinte linee di politica estera nelle cose dette dai candidati. Vero, e infatti Romney ha attaccato quasi solo quando è riuscito a riportare il confronto sui temi a lui più congeniali: la disoccupazione, la crescita troppo bassa, il deficit pubblico. C’è riuscito ignorando i tentativi dell’anziano conduttore (Bob Schieffer della Cbs) di tornare ai temi della serata e legando l’economia alla politica estera: «Abbiamo perso peso sulla scena internazionale e la Cina fa quello che vuole perché negli anni di Obama il nostro sistema produttivo si è indebolito e il debito è cresciuto a dismisura».
Meno propenso di una settimana fa ad accettare la zuffa, Romney ha consentito a Obama di sbeffeggiarlo con la battuta già  di culto dei cavalli e delle baionette: quando Mitt si è lamentato del ridimensionamento della flotta, più piccola di quella del 1916, il presidente gli ha risposto che, sì è vero, la Marina ha meno navi. E l’esercito meno cavalli e baionette. Perché il leader repubblicano forse non se n’è accordo, ma le cose cambiano: «Ora abbiamo quelle cose che si chiamano portaerei coi jet che ci atterrano sopra. Poi ci sono delle cose che vanno sott’acqua: si chiamano sottomarini atomici». Dall’ironia all’accusa politica tagliente: «Dici che il nostro problema più grave è la Russia, come se Al Qaeda non esistesse. Ma la “guerra fredda” è finita da più di due decenni, sei rimasto agli anni Ottanta».
Romney su questo punto ha replicato che lui, da presidente, non affronterà  mai Putin «con gli occhiali rosa» né gli prometterà  «più flessibilità  sui missili dopo novembre perché questa è la mia ultima elezione»: un richiamo all’imbarazzante fuorionda di un dialogo tra Obama e Medvedev registrato a marzo, durante un vertice in Corea. Ma, in genere il leader repubblicano ha preferito esporre i suoi punti di vista.
Più che una scelta rinunciataria, il tentativo di non perdere, con qualche gaffe o surriscaldandosi troppo, quell’immagine «presidenziale» che è riuscito a conquistarsi nel dibattito di Denver. In tv pare che abbia funzionato. Ma da oggi si torna alla battaglia sul campo, strada per strada.
Massimo Gaggi

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