Precari under 35 raddoppiati in 8 anni e la laurea vale come il diploma tecnico

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Pieno di lavoratori a termine “involontari”, partite Iva e collaborazioni fittizie, inquadramenti part time (per far risparmiare il datore). In una parola: giovani. Che tentano di inserirsi in un contesto dove si urla «largo ai giovani» ma si sussurra «io il mio posto me lo tengo stretto finché campo». Secondo un’indagine condotta dal centro studi Datagiovani, in esclusiva per Repubblica,
che analizza l’andamento del precariato giovanile negli ultimi otto anni, nel 2009 è avvenuto il sorpasso tra percentuale di occupati adulti rispetto ai giovani, con un divario che nel primo trimestre del 2012 si attesta intorno ai 5 punti percentuali. Il segnale di deterioramento del mercato del lavoro giovanile è rappresentato proprio dalla crescita del precariato, la cui incidenza tra gli under 35 è raddoppiata in otto anni, passando dal 20% del 2004 al 39 del 2011 e nel primo trimestre 2012 si sarebbe già  sfondato il muro del 40%. Un giovane su due con meno di 24 anni è precario, circa il 23% tra i 25 e i 34 anni, contro percentuali pressoché dimezzate per le classi d’età  più mature. Un fenomeno più evidente tra le donne, dove la crescita, negli ultimi otto anni, è quasi doppia rispetto agli uomini. L’indagine fa una distinzione tra le tipologie di precariato: degli oltre 3,5 milioni di precari italiani nel 2011 (il 15,5% degli occupati totali) i lavoratori a termine involontari (che vorrebbero cioè un contratto a tempo indeterminato) sono circa 2,2 milioni; i lavoratori part-time involontari sono oltre 1,1 milioni, quasi l’80% donne; in calo il fenomeno dei dipendenti “mascherati” da collaboratori (162mila) o partite Iva (77mila).
La laurea non è più un lasciapassare per accedere a un’occupazione stabile. Almenoché non si tratti di una laurea “tecnica”: oggi il “saper fare” conta più del semplice “sapere”. Infatti i laureati in ingegneria, architettura o scienze mediche hanno una probabilità  di precarizzazione intorno al 10%, pari alla metà  dei laureati in discipline umanistiche o dei diplomati in istituti magistrali, licei artistici e linguistici. Per chi si è diplomato in un istituto tecnico la probabilità  di precarizzazione è del 12,6%, non distante da quella di un medico o un ingegnere. L’altro scotto da pagare per i precari è la disparità  di salario: un precario percepisce
dal 20% al 33% in meno nella retribuzione netta mensile rispetto a un collega non precario. Sarà  per questo che le aziende italiane sembrano così allergiche ai contratti “definitivi”, agevolate da leggi nate per aumentare la cosiddetta flessibilità . Datagiovani ha rilevato che l’Italia rispetto a tutti i principali Paesi europei partiva nel 2001 da una incidenza di contratti a termine molto più bassa: 9,6% nel complesso, contro il 12,4% della Ue a 27 e della Germania, il 14,9% della Francia e il 32% della Spagna. Nella fascia 15-24 anni eravamo ampiamente sotto la media dell’Unione: il 23,3% contro il 35,9%. Poi nel 2004 il giro di boa. Con l’entrata in vigore della legge Biagi, il numero dei contratti a termine è cresciuto in modo vertiginoso, fino ad arrivare al 50% dei contratti nel 2011. Un aumento di quasi il 27%. Giovani, poveri e senza certezza. Non era questo il mondo del lavoro, flessibile, che aveva in mente Marco Biagi. Né quello che vuole Mario Monti.


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