Una differenza al settimocielo

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Se è vero che il Concilio Vaticano II nacque in un contesto ancora molto segnato dalla tradizione patriarcale del cattolicesimo, tuttavia esso ha rappresentato l’inizio di un cambiamento i cui esiti possiamo rilevare ancora oggi in corso: una serie di innovazioni che porteranno ad accettare pienamente la prospettiva di parità  tra i sessi, ad aprire l’ambito dello studio e, soprattutto, del magistero teologico anche alle donne, a tematizzare la differenza sessuale (anche se – va sottolineato – non la differenza di genere) all’interno dei documenti ufficiali, ad accettare progressivamente l’orizzonte di valori e modelli di vita propri della cosiddetta doppia presenza femminile.
Fatto emblematico della novità  conciliare, per la prima volta nella storia della Chiesa prendevano parte all’assise, sia pure solo col ruolo di uditrici, anche alcune donne, quelle che già  alcuni organi di stampa definirono come «madri del concilio», come ricorda Adriana Valerio.

Strade divergenti
Nel settembre 1964 Paolo VI annunziò ufficialmente la presenza di uditrici al Concilio e successivamente cominciarono ad entrare in aula e a lavorare nelle commissioni della terza e quarta sessione ventitré donne (dieci religiose, tredici laiche), scelte secondo criteri di rappresentanza geografica e organizzativa. Storicamente la decisione di Paolo VI – ammettere le donne, ma ancora sotto il peso di prescrizioni come la circolare Merry Del Val che nel 1904 aveva ribadito: «Nelle assemblee cattoliche non si dia mai la parola alle signore benché rispettabili e pie» – era di per sé significativa di due linee di tensione interne alla storia del cattolicesimo d’età  contemporanea: da una parte, la plurisecolare tradizione di discriminazioni (e misoginia) che in particolare trovava espressione nelle norme del diritto canonico, in cui le donne erano di fatto equiparate a minorenni; dall’altra, lo straordinario sviluppo delle organizzazioni femminili cattoliche di massa e, prima ancora, delle congregazioni religiose femminili: una mobilitazione e un protagonismo in più occasioni additati come vera riserva di energie per la Chiesa in tempo di secolarizzazione diffusa.
Tale mobilitazione femminile, tuttavia, fino al Concilio si era sviluppata in modo sostanzialmente divergente rispetto ai processi di emancipazione femminile e al femminismo. Tra Ottocento e Novecento, nel mondo cattolico femminile organizzato si erano confrontate due prospettive: l’una, largamente maggioritaria e saldamente ancorata agli strumenti categoriali del neotomismo, nettamente contraria alla rivendicazione di diritti di cittadinanza e ad ogni rapporto col movimento emancipazionista; per dirla con le parole di una protagonista di assoluto rilievo, la contessa Elena Da Persico (1869-1948), quello di emancipazione femminile era solo il «nome pomposo di una lacrimevole servitù»; l’altra, favorevole alla critica attiva alla tradizione patriarcale anche dentro la Chiesa e a sperimentare forme di collaborazione col femminismo, ma costretta al silenzio con la nascita degli organismi ufficiali dell’azione cattolica femminile.

Il senso delle culle
L’impostazione intransigentistica, la natura oppositiva di questi organismi presupponeva un netto dualismo asimmetrico di sfere e ruoli sessuali, un’asimmetria che sempre la Da Persico sintetizzava nella posizione di «sottomissione non pecorile» delle donne all’uomo. E certo non fu la stagione successiva dell’affermazione delle organizzazioni di massa a rappresentare un cambiamento sul piano della tradizione teologica e, soprattutto, ideologica con cui il mondo cattolico leggeva le relazioni e i ruoli dei sessi, pur in presenza di un indubbio protagonismo femminile al loro interno. Furono semmai la guerra, la lotta antifascista e poi l’acquisizione della cittadinanza politica a determinare il superamento della prospettiva dualistica e gerarchica, così come ulteriormente, a partire dagli anni Cinquanta, le trasformazioni dei costumi, delle forme produttive, delle relazioni familiari. La difficoltà  del riorientamento anche nel Concilio è palese. Se si guarda agli atti ufficiali, ancora poche e non esaltanti risultano le prese di posizione in materia. Tra i messaggi conclusivi del Concilio, i Messaggi all’Umanità  emanati l’8 dicembre 1965 da Paolo VI, quello alle donne appare forse come il più scontato e meno profetico: un messaggio che parte dall’orgoglio (storicamente discutibile) di aver sempre riconosciuto l’uguaglianza tra i sessi e giunge all’appello al «senso delle culle» delle donne, nel complesso indicando loro ancora la missione materna come destino da compiere all’interno delle famiglie o più latamente verso la «famiglia umana»; in generale e contrariamente a quanto avevano auspicato alcune delle uditrici, considera le donne come una categoria e non come metà  del popolo di Dio e del genere umano. Non va inoltre dimenticato che, anche in risposta a reazioni dei settori più conservatori del Concilio, papa Montini volle avocare a sé due questioni d’importanza centrale per la vita e le rivendicazioni femminili, e ancora oggi ancora chiuse ad ogni revisione dottrinale e pastorale: la questione della regolamentazione delle nascite e dell’ammissione delle donne al sacerdozio ministeriale.
Nessun ascolto fu dato – ed è notoriamente una questione ancora scottante – all’esplicita istanza avanzata in tal senso da alcune esponenti del laicato cattolico non italiano. In particolare era stata la piccola ma combattiva associazione femminista cattolica di origine inglese, la St. Joan’s International Alliance (nata nel 1911), a chiedere dapprima un diaconato per i laici aperto anche alle donne e nel ’62 l’ammissione dei laici, donne e uomini, come osservatori del Concilio, passando quindi a fare proposte in ordine alla revisione delle norme discriminanti del diritto canonico, all’accesso delle donne agli studi teologici e all’ammissione al sacerdozio ministeriale. Senza contare l’iniziativa della giurista svizzera Gertrud Heinzelmann, che fin dalla fase preparatoria inviò alla commissione di studio sull’apostolato dei laici un documento che conteneva l’esplicita richiesta di accesso al diaconato e al sacerdozio.

L’invito alla partecipazione
Sui lavori di una commissione creata ad hoc negli anni Settanta pose un blocco totale, com’è noto, il documento della Congregazione della fede Inter insigniores (1976), che ribadì le posizioni tradizionali di divieto. È anche vero che – pur senza alcun esame autocritico – la costituzione pastorale Gaudium et spes affermava l’uguale dignità  fra uomo e donna, denunciava ogni discriminazione sessuale e indicava il compito di promozione della «partecipazione propria e necessaria delle donne nella vita culturale». Nella Lumen gentium, inoltre, si affermava il principio della corresponsabilità  apostolica di tutti i fedeli, uomini e donne allo stesso titolo, nella vita della Chiesa. Nel complesso l’ecclesiologia conciliare ha suggerito l’orizzonte categoriale in cui s’inseriranno successivamente profonde trasformazioni grazie a una nuova idea della partecipazione attiva di tutti i credenti come popolo di Dio, ad una concezione meno essenzialistica e più dinamica della natura umana e, più in generale, ad un confronto con la «città  secolare e le sue protagoniste» sostanzialmente inedito.


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