Verona non ha paura della crisi

by Sergio Segio | 31 Ottobre 2012 6:03

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Da Verona, una delle capitali italiane dell’industria alimentare, parte una proposta. Ad avanzarla è Alberto Bauli, l’imprenditore che guida un gruppo con 315 milioni di euro di ricavi, 1.500 dipendenti e 4 stabilimenti. La crescita della sua azienda è avvenuta sia per linee interne sia tramite acquisizioni (tra le ultime Doria, Motta e Alemagna). Lungi dal farsi intimorire dalla recessione oggi Bauli pensa che per il suo gruppo, ma più in generale per il «food in Italy», sia arrivato il momento giusto per accelerare. Ci vogliono aziende più grandi, capaci di esportare il prodotto italiano e di competere con l’industria alimentare dei cugini francesi che si giovano di alcune tra le più grandi catene di distribuzione del mondo.

Quello che propone Bauli è una sorta di piano di consolidamento e aggregazione. Secondo le stime di Federalimentare sono oltre 6.300 le imprese con oltre 9 addetti ma pochissime quelle che superano il miliardo di euro. La più grande, la piemontese Ferrero, con 7 miliardi di euro resta comunque lontanissima dai colossi americani che superano i 50 miliardi di dollari e dalla Nestlé che si appresta a superare i 100 miliardi di franchi svizzeri. Eppure nel mondo vengono venduti 60-70 miliardi di euro di prodotti che hanno il cosiddetto «italian sound» (Parmesan, mozzarella, eccetera).
Per rendere però possibili grandi e piccole aggregazioni del made in Italy alimentare il Fisco deve rivedere le norme che regolano (e tassano) fusioni e acquisizioni e che oggi penalizzano chi vuole investire per crescere. Sostiene Bauli: «Oggi l’accorpamento è reso difficile da un’onerosità  fiscale che ci penalizza con imposte che considerano guadagno la differenza tra il patrimonio netto e il prezzo di cessione». Ad esempio, su un’impresa che fattura 10 milioni, ha un patrimonio netto di un milione e viene ceduta per 5 milioni di euro il proprietario deve pagare tasse sul differenziale tra il prezzo di cessione e il patrimonio netto (quindi su 4 milioni). «Eppure — spiega Bauli — il patrimonio è spesso frutto di decenni di utili accantonati su cui si sono già  pagate le imposte e che si è formato quando ancora c’era la lira, per cui dovrebbe essere quantomeno modificato adeguandolo all’inflazione». A sua volta chi compera non può portare a capitale il differenziale di valore tra il patrimonio e il prezzo pagato. «Le convinzione del Fisco è che i prodotti, il marchio connesso e la fidelizzazione dei consumatori non possano durare, quando in realtà  rappresentano il vero valore di un’azienda moderna».
Per perorare la sua idea di una politica industriale (concreta) per la crescita Bauli cita esempi stranieri. Il Giappone degli anni 60 e 70 scelse il mondo della fotografia per impostare prodotti capaci di vincere la competizione mondiale. La Corea, in questi anni, ha trovato nella cantieristica le stesse opportunità  innovando il ciclo lavorativo. E la stessa Finlandia nella telefonia è riuscita a creare un colosso come Nokia, che pur nelle difficoltà  attuali recita un ruolo di primissimo piano. «La domanda che ci dobbiamo porre è se esiste la possibilità  di dominare anche tra venti anni nell’alimentare, nella moda, nella meccatronica, nel medicale e nei prodotti del design». Implicitamente Bauli risponde di sì e propone il settore del food come laboratorio per una strategia di crescita del made in Italy.
«Bauli ha assolutamente ragione — commenta Gianni Tamburi, uno dei maggiori esperti italiani di acquisizioni — le operazioni societarie si devono basare innanzitutto su logiche industriali e commerciali ma è necessario che il Fisco non sia d’ostacolo». Ad esempio, si potrebbe ripristinare la possibilità  di ammortizzare la differenza di fusione tra prezzo pagato e valore contabile della società  acquisita. «Diversi anni quando si realizzò il merger tra San Pellegrino e Levissima si utilizzò questo strumento e tutto fu più semplice». Anche Guido Corbetta, docente all’università  Bocconi dove insegna management delle imprese familiari pensa che i processi di aggregazione vadano favoriti. «Se chi vende è una persona fisica si può pensare a meccanismi che rivalutino la partecipazione in suo possesso. Questa norma c’era e il governo potrebbe ripristinarla. Poi si potrebbe pensare di favorire il compratore prevedendo una deducibilità  fiscale parziale dell’avviamento». E Giuseppe Tripoli, il Mister Pmi italiano ovvero il garante dei piccoli e medi imprenditori, che ne pensa della proposta di Bauli? «Il Fisco — risponde — può svolgere un ruolo importante con un modello semplificato che renda più omogeneo il trattamento fiscale delle operazioni di cessione, che oggi prevede una tassazione elevata per la parte relativa agli utili non distribuiti considerati come parte della plusvalenza». Un punto, quindi, Bauli da Verona l’ha segnato.

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