Arafat riesumato L’ultimo spettacolo

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RAMALLAH (Cisgiordania) — Aprono la tomba all’alba, quando Ramallah e le coscienze dormono ancora. Le strade che portano alla Muqata, il palazzo presidenziale dov’è sepolto Yasser Arafat, sono chiuse da due giorni. Polizia dappertutto: la tv palestinese è l’unico occhio ammesso ad assistere; un medico palestinese, l’unica mano autorizzata a toccare; l’inquirente palestinese, l’unica voce abilitata a parlare. Il sudario sono grandi teli di plastica nera e blu.
Non c’è bisogno di levare la salma dal mausoleo, «lo stato del corpo era come ci si poteva aspettare»: alcuni frammenti d’osso presi dalla coscia, «nessuno straniero ha messo le mani sul Padre della Palestina». Il prelievo è portato nella moschea di fianco alla Muqata, venti campioni sono distribuiti agli esperti svizzeri, francesi e russi che li esamineranno nei loro laboratori. Tre ore e mezza per richiudere tutto, posare qualche fiore, verbalizzare coi tre giudici parigini che indagano su richiesta della vedova Suha, per aprire un’inchiesta che, almeno qui, sa già  dove puntare: «L’accertamento sulle cause della morte di Arafat non si fermerà  â€” avverte Tawfiq Tirawi, capo della commissione palestinese — e se non troveranno il polonio, chiederemo di cercare altri veleni. Chi l’ha assassinato, la pagherà ».
Ci volle meno a seppellirlo, otto anni fa, di quanto ci vorrà  a sapere perché l’hanno dissepolto. «Non avremo i risultati prima di marzo», prevedono dall’università  di Losanna. Molte le perplessità : otto anni sono tanti, per rivedere tracce di polonio come quelle scoperte a luglio sulla kefiah e sullo spazzolino. Anche la degenza parigina fu troppo breve, per parlare con certezza d’intossicazione radioattiva. E poi il leader palestinese non perse un capello, come invece accadde alla più famosa vittima di quel veleno, la spia russa Litvinenko. «Una sceneggiata», liquida il governo israeliano, principale sospettato dai palestinesi: «Perché la vedova s’oppose all’autopsia? Perché Ramallah non ha mai reso pubbliche le cartelle cliniche dell’epoca?». Polonio o no, Arafat serve da morto più ancora che da vivo: il suo successore, Abu Mazen, domani perorerà  all’Onu l’ammissione della Palestina come Stato osservatore e, se la spunterà , potrà  portare il giallo del veleno alla Tribunale dell’Aja, chiedendo un’inchiesta internazionale. Alle Nazioni Unite s’allarga il fronte del sì, la Francia conferma che riconoscerà  lo status palestinese: «Lo spirito di Arafat — dice Abu Mazen — è uscito dalla tomba per sostenerci nella nostra marcia sull’Onu».
A molti, dal nipote alla vecchia sorella di Yasser, l’intifada della salma piace ancor meno di quella diplomatica. «Non serve a niente — dice al Corriere la scrittrice palestinese Suad Amiry, l’autrice di «Sharon e mia suocera» —. Se pure si scopre che l’hanno avvelenato, dove si trovano le prove su chi è stato? Si può sospettare di chiunque, quindi non s’accuserà  nessuno. E’ solo un gioco politico. Arafat poteva piacere o no, ma era il rivoluzionario rispettato da tutti. Più che il polonio, lo uccise chi cancellò la soluzione dei due Stati. Gl’israeliani, che ormai negoziano solo le tregue. Ma anche Abu Mazen: uno che ha rinunciato a tornare perfino nella sua città  natale, perché allo Stato palestinese non crede più».


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