Casacca e cravatta, l’estetica del potere

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PECHINO — La rivoluzione non si può permettere di essere nuda. Deve incontrare gli occhi, parlare senza parlare. Sun Yat-sen, l’uomo che offrì alla Cina la sua prima rivoluzione e la sua prima repubblica (1911-12), lo capì così bene da lasciare l’impronta su un secolo di storia patria. L’intreccio fra il potere e le sue divise comincia nel 1923 quando Sun, intellettuale esposto all’Occidente, cassò giacca e cravatta. Poco pratici. Forse anche poco adatti a segnalare l’uomo nuovo. Sun si era ispirato alla giacca dei cinesi della diaspora, sostituendo le tre tasche interne con quattro esterne. Con una piega perché potessero essere generosamente riempite. Colletto chiuso. Aura austeramente militare.
Da lì cominciò il viaggio dell’«abito alla Sun Yat-sen» e il passato rimase indietro. Lo indossò il cognato Chiang Kai-shek, il leader nazionalista che di Sun si considerava erede e continuatore. Quando Mao Zedong, l’antagonista di Chiang, si impossessò a sua volta della giacca «alla Sun», aveva attraversato altre stagioni estetiche: l’abito tradizionale fino ai piedi, i cappotti della Lunga Marcia, i pantaloni imbottiti di Yan’an. A proclamare la Repubblica Popolare, il 1° ottobre 1949, Mao era vestito così e, in parallelo, a Taiwan il generalissimo Chiang Kai-shek avrebbe continuato a sua volta ad alternarla alla divisa militare.
La presa di Mao, però, fu più profonda, al punto da usurpare il nome dell’oggetto, diventato «giacca alla Mao» (ma — attenzione — solo per noi occidentali: in Cina è soltanto «alla Sun»). L’indumento, nella nuova Cina comunista, impose una seconda rivoluzione, unificando i sessi. Spazzata via l’era dei qipao dallo spacco peccaminoso e con zero millimetri tra la seta e la pelle, caro all’immaginario orientalista. Rivestite, invece, le contadine dalle stoffe informi che coprivano e basta. La rivoluzione e il potere si materializzarono dunque in una giacca universale di colori neutri, sulla quale spiccava il rosso di spille e mostrine, colore feticcio speculare al giallo dell’imperatore.
La giacca non muore con Mao. Accompagna Deng Xiaoping, rimane addosso ai vecchi rivoluzionari come prova di sobrietà  e come memento. Occorrerà  arrivare agli anni Ottanta di Hu Yaobang, riformista riformato, e di Zhao Ziyang, epurato ancora più duramente, per vedere leader in giacca e cravatta. Era per dire al mondo che la Cina era scesa finalmente sulla Terra dalla sua orbita distante benché gli ortodossi continuassero a guardare con sospetto i revers e la cravatta. Il berretto, questo sì, «alla Mao» continuò a vivacchiare nelle sacche di nostalgia maoista in giro per l’Asia.
Il segno del potere però non svanisce. La giacca alla Sun appare quando il leader — Jiang Zemin prima, Hu Jintao ora, presto Xi Jinping — agisce come presidente della commissione militare. Nelle ispezioni delle forze armate il capo veste alla maniera dei rivoluzionari di una volta. È tutto il resto a essere cambiato. Oggi la goffaggine dei primi blazer non è meno remota della dinastia Ming. Il grigio Tirana, il nero Bucarest, l’etichetta cucita sulla manica dei burocrati hanno ceduto sotto i colpi della consapevolezza del marchio. Il rango esige il riconoscimento del lusso. Il taglio dei completi di Bo Xilai, stella abbattuta della politica, era esemplare e dei leader si racconta di una certa predilezione per Ermenegildo Zegna. Tutto l’apparato estetico para-rivoluzionario o simil-tradizionale è lasciato agli stranieri in vena di esotismi. A non essere coperte dall’abito del potere sono le donne. Che dalla Cina della politica sono di fatto ancora escluse. Il potere è maschio. Quello femminile però sta nel prendere tutto il resto. E c’è molta più libertà : la rivoluzione non ha più bisogno di divise.


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