Cina, i magnifici sette prendono il comando

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Negli ambienti militari c’è chi pensa che le forze armate debbano rispondere allo Stato e non più al PartitoÈ finita. Le porte si sono riaperte e il 18esimo Congresso del Pcc ha partorito la sua nuova leadership: una Quinta Generazione né giovane né nuova, almeno a guardare i «magnifici sette» che, guidati dal primus inter pares Xi Jinping, si sono ieri presentati al mondo, in completo scuro e capelli imprigionati dalla brillantina. Il prossimo Comitato permanente, il nucleo forte del potere, ha un’età  che va dai 57 ai 67 anni, e carriere decennali di burocrati e tecnocrati che si sono fatti le ossa e affinati i denti nelle prime file del Partito. Tutti uomini, come detta la legge della squadra compatta. La Cina messa in scena dal Pcc ai suoi massimi vertici non ama le donne e sul palcoscenico del potere forte metà  del cielo è vuota. E anche se tra i 25 membri del Politburo le presenze femminili sono due (non accadeva dai tempi di Mao) nel Comitato centrale appena eletto su un totale di 376 membri le donne sono appena 10, tre in meno del precedente consesso. Un segno non propizio per il periodo che si apre.
Perché, al di là  delle delusioni o delle aspettative nei confronti della nuova squadra, un capitolo nuovo è iniziato ieri nella Rpc, per quanto vecchie e note siano le facce che lo incarnano. Da quando il meccanismo del trasferimento concordato del potere voluto da Deng è stato avviato, ognuna delle due leadership susseguitesi da allora ha interpretato a suo modo l’aria dei tempi e proceduto a cambi, anche drastici, necessari a continuare le riforme, a far crescere il paese e a far restare in sella il Pc, mentre cercava di risolvere i problemi sempre più acuti che ogni fase creava. A giudizio unanime, il compito che attende i vertici entrati in scena ieri è ancora più irto di difficoltà  rispetto a quello che si sono trovati ad affrontare i predecessori. I delusi dalle nomine ritengono che i nuovi leader non saranno in grado di procedere al cambio di rotta ritenuto da tutti necessario, anche se le idee su quale questo debba essere divergono sempre di più. 
Oggi però si può solo cercare di capire le logiche che hanno presieduto alle scelte.
La prima, e più significativa, ha riguardato la guida della Commissione militare centrale che andrà  subito a Xi Jinping, senza l’interregno che si pensava avrebbe assunto Hu Jintao, sulle orme del predecessore Jiang Zemin, rimasto appollaiato al vertice del potere militare per due anni oltre il suo mandato, a limitare il potere del segretario in carica. Per quanto se ne parli poco, gli ambienti militari appaiono da qualche tempo inquieti e anche se non in modo aperto c’è chi pone la questione che le forze armate debbano rispondere non più al Partito ma allo Stato. L’argomento, di enorme portata, è stato messo a tacere, considerando anche lo sconvolgimento provocato nel Pcc dall’esplosione dello scandalo Bo Xilai. Vero è anche che nella biografia di Xi Jinping, esponente dell’aristocrazia rossa cinese, fanno bella mostra ottimi rapporti con le forze armate, essendo stato nel 1979 segretario personale del ministro della difesa Geng Biao. Quel che non è chiaro è se Hu Jintao ha ottenuto qualcosa in cambio della sua rinuncia o se ha dovuto semplicemente rassegnarsi.
Come sia, i nomi che compongono il Comitato permanente, ridotto da 9 a 7 membri per garantire rapidità  decisionale, parlano di una schiacciante prevalenza dei «principini» ma soprattutto di una forte egemonia del grande vecchio Jiang Zemin. Se si eccettuano il neo premier Li Keqiang, che prende il posto di Wen Jiabao, e il capo della propaganda Liu Yunshan, entrambi legati alla Lega della gioventù comunista di Hu, tutti gli altri mostrano credenziali che li connettono alla fazione di Shanghai capeggiata dall’ex presidente. Un ritorno sorprendente ma tutto da capire. 
Il prevalere dei «principini» si spiega con la volontà  del Partito di affidarsi nelle mani di coloro che si ritengono gli eredi legittimi del destino del paese per il ruolo storico delle proprie famiglie, molte delle quali oggi devono difendere anche ingenti interessi economici. Ma per quanto riguarda Jiang Zemin, chi parla di conservatorismo dovrebbe ricordare cosa significarono i suoi dieci anni di governo in coppia con l’allora premier Zhu Rongji. Ristrutturazioni drastiche delle imprese di stato con decine di milioni di licenziamenti; l’ingresso della Cina nel Wto; un ritocco ideologico che con la «teoria delle tre rappresentanze» aprì le porte del Partito agli imprenditori privati. Autoritarismo, certo, ma modernizzatore all’estremo soprattutto in economia. 
Nel suo primo discorso pubblico come nuovo capo dei capi, Xi Jinping non ha certo fatto sognare. «Il partito deve fronteggiare molte sfide severe» ha detto, riecheggiando il discorso di addio di Hu Jintao, è infatti afflitto al suo interno da «molti pressanti problemi che devono essere risolti, in particolare la corruzione, il distacco dal popolo. (…). Il Partito deve stare in massima allerta». Le delusioni sono grandi, almeno quanto le aspettative. Che tutti ne siano consapevoli lo si capisce da un editoriale del China Daily di ieri in cui si esorta a comprendere che «La fiducia nella continuità , invece delle idee rivoluzionarie e degli approcci drammatici, significa che un domani migliore è possibile».
Ma forse al fondo vi è la questione esposta dallo scrittore Yu Hua quando nel suo La Cina in dieci parole scrive: «Se dovessimo stabilire qual è la parola che si è svalutata di più e più velocemente in Cina negli ultimi 30 anni, credo che “leader” si aggiudicherebbe il premio, senza colpo ferire».


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