Credito, tasse e peso politico: la crisi delle piccole aziende

Loading

N el mondo della piccola impresa c’è molta preoccupazione per i mesi a venire, quelli che ci porteranno alle elezioni politiche.
I pessimisti sostengono addirittura che tante aziende abbasseranno le saracinesche per le feste di Natale e non le solleveranno più passato il Capodanno.
I motivi sono lampanti  e il presidente della Cna, Ivan Malavasi, li ha elencati impietosamente nei giorni scorsi all’assemblea della sua organizzazione.
Il mercato interno è stagnante, il credito arriva con il contagocce (7 punti in meno in un anno) e costa il 2% in più dei Paesi Ue, la procedura messa a punto per i pagamenti pregressi è quanto meno farraginosa, la tassazione è a livelli record (secondo Malavasi al 68,5%). C’è da aggiungere che nel frattempo la forza di pressione delle associazioni di rappresentanza si è stemperata. La Confindustria, che comunque resta la casa della grande impresa, stenta a ritrovare il passo, Rete imprese Italia è stata colpita da una preoccupante amnesia e le assemblee che si tengono di questi tempi appaiono dei puri riti organizzativi.
Va detto che non tutti i settori stanno subendo la recessione con la stessa intensità , l’edilizia e l’arredamento sembrano i più colpiti, l’indotto di auto/siderurgia/elettrodomestici risente della crisi in cui si dibattono le grandi aziende, l’alimentare invece dà  tutto sommato segni di maggiore vivacità . Il tutto è in linea con l’evoluzione dei consumi, l’acquisto di beni durevoli viene rinviato sine die e invece i tagli alla tavola sono tutto sommato contenuti.
Per evitare la decimazione delle piccole aziende ci vorrebbe un cambio di passo. Partiamo dal credito. «Il rubinetto bancario tutt’al più sgocciola — racconta “Mister Pmi” Giuseppe Tripoli, il garante della piccola e media impresa —. La domanda di finanziamento resta elevata ma per le esigenze a breve, per avere il circolante in azienda. Non si è ripristinato un flusso continuo di denaro dalle banche alle Pmi». È vero che qua e là  ci sono campagne pubblicitarie degli istituti di credito in cui viene sbandierata la vicinanza ai Piccoli, nei fatti e nei territori però queste buone intenzioni non arrivano. «La stessa evoluzione della cultura bancaria sul merito di credito procede troppo lentamente, le suggestioni sulla premialità  di rating sono rimaste sulla carta e le potenzialità  di una nuova relazione banca-impresa che sappia creare valore aggiunto sono anch’esse rimandate a tempi migliori» aggiunge Tripoli.
Eppure non c’è alternativa. Il guaio è che non si capisce chi dovrebbe prendere l’iniziativa. Il governo non sembra avere il monitoraggio del credito alle imprese come missione, le banche hanno altre priorità , le associazioni di rappresentanza non paiono attrezzate. E così anche la novità  di poter emettere mini-bond da collocare presso i risparmiatori rischia di passare in cavalleria e non incontrare l’attenzione necessaria. Intanto il sistema dei Confidi, i consorzi di garanzia auto-organizzati, è precipitato in una situazione di estrema difficoltà . Si avverte il bisogno di avviare un percorso di aggregazione e di rivedere le norme che ne regolano la patrimonializzazione magari coinvolgendo le Fondazioni bancarie, ma tutto ciò può avvenire solo con un salto di qualità  nei controlli e sottoponendo i Confidi alla vigilanza della Banca d’Italia.
Veniamo ai pagamenti. Ed è sempre Tripoli che fa il punto: «Il meccanismo messo in piedi per rimborsare i debiti pregressi delle pubbliche amministrazioni nei confronti delle Pmi va a rilento. Manca sempre qualcosa». È stato predisposto il formulario per la certificazione dei crediti ma una volta non c’è la piattaforma online e un’altra l’autorizzazione all’intervento del Fondo di garanzia e così le banche hanno buon gioco a mostrare il braccino corto quando si tratta di scontare quei crediti e anticipare contante agli imprenditori. È vero che da gennaio scatterà  la direttiva che obbliga a pagare dentro i tempi europei (60 giorni) ma la battaglia per recuperare il pregresso è quasi un corpo a corpo. E anche in questo caso si sconta una lentezza delle associazioni che dovrebbero assistere sul territorio il processo di rimborso e invece non riescono a farlo.
Sul tema delle aggregazioni il ritardo è altrettanto grave. Sono all’incirca 2.500 le aziende che sono entrate a far parte delle reti di impresa ma il numero è esiguo ed è dovuto per lo più all’iniziativa della task force della Confindustria. Gli artigiani dovrebbero partire anche loro ora che è stata riconosciuta alle reti la soggettività  giuridica. Nel frattempo qua e là  nei territori si cominciano a registrare acquisizioni e di recente un big dell’alimentare, Alberto Bauli, è intervenuto per chiedere al governo di rivedere il regime fiscale che regola le fusioni. La verità  è che un’impostazione che lascia le aggregazioni solo all’iniziativa dal basso si è rivelata riduttiva e sfasata in termini temporali. Le novità  che lasciano più il segno sono le riorganizzazioni delle filiere da parte delle grandi aziende. Nell’abbigliamento e in genere nel lusso questi processi sono andati avanti e in molti casi, tra cui Prada, hanno sicuramente rafforzato le Pmi. Dall’indotto vecchia maniera si è passati a una partnership duratura e regolata dalle leggi di mercato. In qualche caso i rapporti commerciali sono stati innervati con nuovi investimenti, progetti di e-commerce e politiche di formazione. Senza diminuire la pressione sul fronte delle reti forse bisogna ripartire da qui e settore per settore rafforzare le filiere. Un ruolo può svolgerlo anche una grande distribuzione che non fosse interessata solo a comprimere i prezzi.
Come si è visto, l’azione soggettiva delle forze di rappresentanza potrebbe far molto per invertire l’inerzia ma il «cambio di passo» stenta a farsi largo prima di tutto nelle teste dei gruppi dirigenti. Il rischio di stare con le mani in mano ad aspettare le elezioni è concreto, condito magari dall’illusione di strappare un sottosegretariato. Racconta Tripoli: «Le associazioni sono attratte in questo momento più dalla riorganizzazione del potere verticale che dalla cura orizzontale delle imprese, dovrebbero aiutarle a mettersi in rete, a trovare i manager giusti, ad affrontare i problemi finanziari e bancari. In qualche caso o in qualche provincia, dove ci sono le persone giuste, avviene».
Ma più spesso si finisce per dar vita a una convegnistica minore in cui la gerarchia delle priorità  sfugge.


Related Articles

Più manager, spariti impiegati e commessi l’economia riparte senza la classe media

Loading

NEW YORK— Come i panda, peggio dei panda: i pochi esemplari della classe media che usciranno indenni dalla crisi infinita saranno studiati come specie rare. La tendenza è nota, ora arrivano nuovi numeri a raccontare un fenomeno capace di trasformare radicalmente la società : dal 2007 a oggi, negli Stati Uniti sono stati assunti quasi quattrocentomila manager (387) e si sono persi per strada due milioni di impiegati affondati dalle nuove tecnologie.

Tutti i pericoli (e le insidie) di un testo contraddittorio

Loading

L’ANALISI
Dalle questioni della rappresentanza al divieto di sciopero per i sindacati, elegantemente mascherato nella definizione di «tregua sindacale»

 

QUEL GRIDO CHE ARRIVA DAL SILOS DELL’ALCOA

Loading

Una volta col lavoro ci si guadagnava da vivere, oggi si rischia la vita per guadagnarsi il lavoro. O almeno per guadagnarsi un po’ d’attenzione: quanti hanno dovuto arrampicarsi sui tetti, sulle gru, spremersi il cervello per trovare il modo di essere visti, per avere almeno per un momento l’attenzione dei media?

No comments

Write a comment
No Comments Yet! You can be first to comment this post!

Write a Comment