Debito e deficit, tutti i conti che non tornano

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Si è parlato del «dirupo fiscale» che incombe sul bilancio federale: se non ci saranno accordi al Congresso, il 1 gennaio scatteranno automaticamente 600 miliardi di dollari di tagli di spesa e nuove tasse, una manovra enorme (dell’ordine del 15% della spesa pubblica Usa) che precipiterebbe il paese nella recessione. Una prospettiva che ha preoccupato più il G20 che gli elettori Usa. I democratici controllano il Senato mentre alla Camera dei rappresentati la maggioranza è dei repubblicani più estremisti, che hanno bloccato ogni mossa di Obama e difendono gli sgravi fiscali ai più ricchi. Le elezioni di ieri non dovrebbero mutare quest’impasse ed è difficile pensare a un consenso che risani i conti Usa evitando il «dirupo».
Una recessione provocata da politiche di austerità  sul modello europeo farebbe saltare il già  precario equilibrio dei conti Usa. C’è un deficit pubblico intorno ai 1.100 miliardi di dollari, pari al 7,5% del Pil (era oltre il 10% nel 2009). Finora è stato finanziato da nuovo debito, raddoppiato in 10 anni; ora è pari al 100% del Pil e la banca centrale ne ha comprato oltre un terzo, stampando dollari senza limiti. 
Ma il guaio più grosso d’America è il debito privato, intorno al 250% del Pil del paese (era al 240% nel prima della crisi del 1929 e al 300% nel 2009, a crisi scoppiata). È fatto di mutui immobiliari (13 mila miliardi, poco meno del valore del Pil, molti dei quali impagabili), di debito delle imprese (12 mila miliardi), di debito delle famiglie per sostenere i consumi (2.700 miliardi). E i creditori sono in misura crescente stranieri: il debito estero totale degli Usa è vicino ai 15 mila miliardi di dollari, lo stesso ammontare del Pil, e di questo oltre un terzo è debito pubblico nelle mani di investitori stranieri. 
Poi c’è il deficit estero: il gap tra importazioni e esportazioni è di 44 miliardi di dollari, e veniva finanziato da altrettanti afflussi di capitale da Cina, paesi ricchi e paesi emergenti. È un meccanismo che non funziona più: gli Usa hanno ora un deficit di 120 miliardi di dollari nei movimenti di capitale, mentre all’inizio del 2011 avevano un avanzo di 600 miliardi. La caduta attuale è analoga a quella registrata con la crisi del 2008; la crisi dell’euro fa meno paura e il Sud del mondo inizia a scommettere sui paesi emergenti anziché su Wall street. 
Senza grandi capitali in entrata e con un debito totale che non si ferma, il cerotto messo sulla crisi finanziaria potrebbe saltare; con meno dollari stampati, meno disponibilità  di capitali e i conti delle banche sempre precari (altre otto società  finanziarie hanno appena ricevuto aiuti dalla Fed), potrebbe sgonfiarsi la faticosa ripresa della Borsa – l’indice S&P è raddoppiato tra febbraio 2009 e oggi, tornando ai livelli pre-crisi – e la bolla finanziaria potrebbe scoppiare una seconda volta.
A questo punto ci sono tre scenari. Quello «alla Roosevelt» vede un Obama rieletto, che affronta i guai che scoppieranno nell’economia governando per il 99% degli americani, sottraendosi al ricatto di Wall street (che ha finanziato la sua vittoria), un presidente che riottiene tra due anni la maggioranza alla Camera, chiude il ciclo del neoliberismo, amministrando con intelligenza il lento declino americano. Lo scenario «alla Clinton» è la continuazione degli ultimi due anni, un Obama centrista che media con i repubblicani e la finanza, ma che proprio per questo non riesce a far quadrare i conti, a reagire a una caduta di Borsa o un precipitoso calo del dollaro, affondando in una depressione piena di brutte sorprese. Lo scenario «anni trenta» vede una vittoria a sorpresa di Romney che accelera i tempi del disastro economico; tagli di spesa che portano recessione, tagli di tasse che rendono ricchissimi pochi ricchi, bolle speculative che si gonfiano e scoppiano, una base produttiva che si indebolisce ancora, una società  che va in frantumi. E bruttissime sorprese per tutti, dentro e fuori gli Stati uniti.


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