Diritto al ritorno, «gaffe» di Abu Mazen

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GERUSALEMME. Tra un gran numero di palestinesi si discute delle ragioni della debolezza e della scarsa credibilità  del presidente dell’Anp (e dell’Olp) Abu Mazen. Il clima regionale mutato dopo la «primavera araba», la crescita dell’islamismo e la popolarità  di Hamas, il ricatto dell’aiuto occidentale, l’incapacità  di giocare alla pari con Israele, solo per citarne alcune. A queste però occorre aggiungere l’innata abilità  di Abu Mazen di scavarsi da solo la fossa politica. Lo si è visto nel fine settimana quando il presidente dell’Anp ha dovuto fare una repentina, quanto imbarazzante, marcia indietro e riaffermare il suo rispetto del diritto dei profughi palestinesi e dei loro discendenti a ritornare alle città  e villaggi d’origine (oggi in territorio israeliano) . «Non ho mai rinunciato e non rinuncerò mai al diritto al ritorno, ho parlato a titolo personale», ha detto a una tv satellitare egiziana. «Quello che dico ai palestinesi non è diverso da quello che dico agli israeliani o agli americani o a chiunque altro», ha aggiunto. Il danno però è fatto. Le parole pronunciate da Abu Mazen davanti alle telecamere della rete televisiva israeliana Canale 2, sono rimaste stampate nella memoria di gran parte dei palestinesi.
Rispondendo a varie domande, Abu Mazen aveva spiegato che per lui lo Stato di Palestina è composto solo da Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est (i territori occupati da Israele nel 1967) e che tutto il resto della Palestina storica è Israele. Fin qui tutto in linea con la nota soluzione dei «due Stati» portata avanti dall’Anp da venti anni a questa parte. Abu Mazen però era ansioso di mostrarsi più moderato del solito agli occhi israeliani che andranno al voto il 22 gennaio, pensando forse di dare una mano ai (presunti) centristi avversari del premier di destra Netanyahu (che, comunque, secondo i sondaggi le elezioni le ha già  vinte). Così ha aggiunto che pur essendo un profugo di Safad e desideroso di visitarla, non intende risiedere in quella città  che ora è parte di Israele.
Parole che a molti palestinesi sono apparse una rinuncia al diritto al ritorno, sancito dalla risoluzione 194 dell’Onu. Il presidente dell’Anp – che guida anche il movimento Fatah e guida il Consiglio esecutivo dell’Olp – peraltro non ha chiarito se, nella sua visione, i rifugiati potranno andare nei territori del futuro Stato di Palestina e se ci sarà  almeno un ritorno limitato dei profughi in Israele. In ogni caso tutti i leader politici israeliani, sino ad oggi, hanno escluso l’attuazione della risoluzione 194 dell’Onu, sostenendo che il ritorno dei 5 milioni di palestinesi sarebbe un «suicidio» per lo Stato ebraico concepito dai padri del sionismo che avviarono la colonizzazione della Palestina.
L’«apertura» di Abu Mazen, naturalmente, ha raccolto la pronta approvazione di Israele, in particolare del presidente Shimon Peres. Netanyahu invece non si è lasciato incantare. Il premier che i palestinesi li vede in futuro confinati in «bantustan» (di fatto già  lo sono) e che immagina uno Stato di Palestina senza alcuna sovranità  reale, sul diritto al ritorno dei profughi ha tagliato corto, aggiungendo che Abu Mazen racconta frottole. E i fatti, tragicamente, gli hanno dato ragione perché poche ore dopo il presidente dell’Anp ha rettificato le sue dichiarazioni sotto la pressione delle critiche e delle polemiche interne. In casa palestinese infatti si è scatenato un tornado. In un comunicato il Fronte popolare (Fplp) ha accusato Abu Mazen di tradire lo statuto dell’Olp. «Abu Mazen vive nella terra dei sogni, crede che facendo queste dichiarazioni otterrà  qualcosa da Israele e Stati Uniti, ma si sbaglia», ha commentato Rabah Muhanna, un leader del Fplp della Striscia di Gaza. Pesanti i commenti di Hamas. E a Gaza hanno prontamente manifestato in strada bruciando poster con la sua immagine.
E mentre ai vertici della politica palestinese si praticava l’ennesimo harakiri, a Gaza un disabile di 20 anni veniva ucciso dal fuoco dei soldati israeliani solo perché era entrato per errore nella «zona cuscinetto» (imposta da Israele). Da Gaza però arriva anche un piccola buona notizia. I pescatori sono usciti in mare andando oltre il limite imposto dal blocco navale israeliano. E dopo anni sono riusciti a fare una buona pesca. «Un pescatore ci ha detto che da tre anni non riuscivano a pescare così tanto e bene – riferisce l’attivista Rosa Schiano uscita in mare con altri internazionali – ci è costato, certo, tante cannonate d’acqua da parte della marina israeliana, però è andata bene così».

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Bombe sui profughi palestinesi, 30 morti

Ieri sera era salito a 30 morti il bilancio di due giorni di combattimenti e bombardamenti nel campo profughi palestinese di Yarmouk, alla periferia di Damasco, tra forze fedeli al regime di Bashar Assad e i ribelli. Un colpo di mortaio ha centrato in pieno un autobus facendo sette morti. Tra le vittime di queste ultime ore ci sono anche donne e bambini. Sono almeno 50 invece i siriani, fra soldati e miliziani pro-regime, uccisi ieri dall’esplosione di un’autobomba guidata da un kamikaze, in una località  della provincia di Hama, secondo quanto ha riferito l’Osservatorio nazionale per i diritti umani, vicino all’opposizione siriana. I Comitati di coordinamento locali, anch’essi legati all’opposizione – che non hanno riportato i 50 morti di Hama – hanno riferito di 92 persone morte ieri in Siria (civili, soldati e ribelli) in combattimenti e bombardamenti avvenuti a Idbil, Damasco, Aleppo e altre località  del paese.
Si continua a discutere dell’assassinio a Damasco del palestinese-siriano Mahammed Rafea, uno degli attori protagonisti della popolare soap opera «Bab al Hara», vista per anni in tutto il mondo arabo, in particolare durante il mese islamico di Ramadan. L’uccisione è stata rivendicata dal gruppo armato «Battaglione Siddiq» – affiliato all’Esercito libero siriano, la milizia ribelle – che ha definito Rafea un «servo al servizio del regime… impegnato a raccogliere informazioni sugli oppositori e in possesso di una pistola». Amici e colleghi dell’attore da parte loro negano che Rafea svolgesse attività  di spionaggio per conto dei servizi di sicurezza. L’attore, affermano, era soltanto un aperto sostenitore del presidente Bashar Assad. Mohammed Rafea, era figlio di un altro artista noto in Siria, Ahmed Rafea, un profugo palestinese costretto a lasciare la sua terra dopo la fondazione di Israele nel 1948, che nel 1948 si era stabilito ad Aleppo.


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