Il grido d’allarme di Hu Jintao “Combattere la corruzione o per la Cina sarà  il crollo”

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PECHINO. LA MALATTIA è nota: dopo trent’anni di «successi epici», se non cambia, la Cina «rischia il fallimento del partito e dello Stato». Anche la medicina è conosciuta: sono necessari «una graduale riforma del sistema politico che assicuri ai cittadini elezioni democratiche e processi decisionali trasparenti». E«un nuovo modello di crescita economica, che garantisca uno sviluppo basato sulla qualità ». Restano due problemi: il dottore e il paziente. Ossia: chi avrà  il coraggio di somministrare il farmaco, quando potrà  farlo e quale sarà  la reazione del malato più grande del mondo. L’ultimo discorso del segretario generale del partito comunista cinese, Hu Jintao, più che un mandato ha chiuso ieri un’epoca. Tra le bandiere rosse della Grande sala del popolo, affacciata su una piazza Tienanmen nuovamente blindata, il presidente ha aperto il 18° Congresso con un bilancio e un programma di un’ora e mezza, in diretta tivù. È stato chiaro che con il decennale passaggio del potere, sancito mercoledì 14, non vanno in pensione Hu Jintao, il premier Wen Jiabao e la quarta generazione dei leader educati da Deng Xiaoping.
Vanno in archivio il prodigio del trentennio cinese, il «decennio d’oro» della crescita a doppia cifra e l’idea che nell’era dei social media un autoritarismo, se pure capitalista, possa auto-legittimarsi a colpi di censura, propaganda e repressione. Per questo, quello di Hu Jintao è apparso a tutti, più che il discorso dell’orgoglio nel momento nel congedo, un vero e proprio grido d’allarme sulla tenuta della seconda economia del pianeta. Ricette e obiettivi vaghi, ma quello che a tratti è suonato come l’attacco di un oppositore di se stesso, portato quale monito per chi resta, non ha evitato le ferite aperte di una nazione che avverte i sintomi di un imminente declino. Aspri i messaggi interni agli oltre duemila delegati del partito: «Se non superiamo la corruzione, l’abuso del potere, la trasparenza dei leader e dei loro parenti — ha detto — questo sistema è destinato a crollare». Di qui l’urgenza di «iniziative positive e prudenti per la riforma della struttura politica».
Scontato, ma grigio, come dal 2002, al punto che lo stesso popolo del web si è permesso di prenderlo in giro. Hu Jintao si è lasciato scappare che «non possiamo restare sul vecchio sentiero, ma nemmeno imboccare la strada sbagliata». Sul Twitter cinese ha spopolato la battuta: «Vorrà  dire che marceremo sulla stessa piastrella fino alla morte». Il dileggio non censurato verso l’Imperatore è il segnale del distacco senza precedenti tra i cinesi e le autorità , della pericolosa rabbia popolare contro abusi e disparità , precipitati da mesi negli scandali di corruzione tra i leader, nelle epurazioni politiche, nello scontro tra riformisti e conservatori e nella guerra in corso per il controllo del Comitato permanente del Politburo. Lo statalista Hu Jintao, sconfitto nel braccio di ferro contro il redivivo ex presidente liberista Jiang Zemin, dato invano due volte per deceduto, ha però spento sul nascere le illusioni di una prossima «Cina democratica ». «Non copieremo mai — ha detto — il modello dei sistemi politici occidentali, che già  hanno fallito nell’ex Urss, in Africa e in America Latina. Un’imitazione servile della democrazia porta al disordine: la Cina perseguirà  una modernizzazione socialista». Partito unico in eterno, un macigno sulla speranza di aperture rapide e sostanziali del regime, bilanciati però dall’accelerata economica. Di fronte ad una nazione che in due anni ha perso oltre tre punti di Pil, con l’export in affanno, il leader uscente ha cercato di rassicurare sia le masse del nuovo ceto medio che i mercati internazionali. «I cambiamenti economici — ha detto — ci impongono la creazione di un nuovo modello di crescita, orientato alla promozione di una cultura del consumo». Mao in archivio, ma obbiettivo esplicito: «Raddoppiare Pil e reddito pro capite entro il 2020, mantenendo una crescita media superiore al 7%». Per i successori è un traguardo decisamente ambizioso, tanto che alcuni delegati l’hanno definito «l’eredità  avvelenata di Hu». «Rivoluzionare pacificamente la Cina — hanno commentato — e rimetterla in moto per rendere tutti ricchi: bene, ma negli ultimi dieci anni il presidente che mestiere ha fatto?». Prima dell’addio, un messaggio ruvido anche alla comunità  internazionale: Pechino rafforzerà  la presenza militare nel Pacifico, aumenterà  gli investimenti sulle forze armate, insisterà  nella riunificazione con Taiwan e non cederà  sulle dispute territoriali, come quelle in corso con Giappone e altri vicini del Sudest asiatico. Tentazioni imperialistiche della crescita, ma ora tocca alla quinta generazione, la prima cresciuta nel boom del «made in China». Xi Jinping, il mistero del compromesso tra le fazioni, gigantografia di Mao Zedong e soprattutto marito di Peng Liyuan, popolarissima star del folk, entra papa in conclave. «Principe rosso» protetto dagli affari di Shanghai, da marzo sarà  il primo leader cinese a regnare con due predecessori in vita. Premier al posto di un Wen Jiabao travolto da parentopoli, sarà  l’avvocato Li Keqiang, protetto di Hu con fama di riformista. A contare, nell’autoritarismo collegiale della Città  Proibita, è però tutto il resto: i conservatori che stanno prevalendo nel Comitato centrale e quelli promossi tra i nove, o forse sette, intoccabili del Comitato permanente. Il neo-maoismo di Bo Xilai è stato epurato, il riformismo di «nonno Wen» stoppato in extremis. Per salvare la Cina dal mondo esterno non restano che altri dieci anni di «terza via», la «stagnazione armoniosa » e lo «sviluppo scientifico» dello sconfitto Hu Jintao. Ma nessuno sa se l’»americano» Xi Jinping, principe indecifrabile che prima di diventare imperatore ha conosciuto l’afrore di un porcile, riuscirà  a trasformare la potenza del secolo in un modello globale sostenibile: non solo a ritardare il tramonto dell’unico comunismo di successo, eletto a rifugio per gli affari di vecchi e nuovi ricchi.


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