Il pianto degli uomini forti

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“’USIGNORE ha deciso che per noi è finita!”. Avete un bell’obiettare che non è il Signore, sono i signori. Lo spirito della città  greca avrebbe raccontato la giornata come noi non sappiamo. C’erano uomini forti ieri, fermi per ore a fissare un mare tempestoso nel quale battelli sballottati cercavano in tondo il loro compagno, afferrato e inabissato con la cabina della sua gru. Piangevano nascosti l’uno nella spalla dell’altro. «Ieri abbiamo scioperato per avere il diritto di venire al nostro posto di lavoro oggi. Siamo arrivati all’appuntamento con la morte». E’ vicinissima, Samarcanda.
Francesco Zaccaria, l’operaio disperso, ha 29 anni — come l’ultimo morto dell’acciaieria, “è l’età  nostra, qui” — è di Talsano, ha genitori e fidanzata. La cabina di una gru sta a 40, 50 metri da terra, il mare è profondo 24 metri. «Non salgo più su una gru», dice un suo compagno. «La cabina è rivolta verso terra, dietro il sedile c’è una parete, il mare non si vede. Se avesse guardato il mare e visto arrivare il tornado, avrebbe forse avuto il tempo di fuggire. Così…». Così le cabine di guida di quei mastodonti sono state estirpate e fatte volare come giocattoli: una è finita sul ponte della nave che stava caricando, l’altra nella melma del fondo.
I suoi compagni fissano il mare, i sommozzatori che ogni tanto riemergono: «Rischiano più di noi, se ti impigli là  sotto con un mare così…». Pensano alla morte propria, mancata di poco, indicano la mensa, che sembra bombardata: «Cinque minuti dopo saremmo stati lì dentro, noi mangiamo alle undici, in 60, 70». Dentro i cancelli della fabbrica, a monte, incontro un giovane vigilante, Antonio S.: ha indosso solo una tuta striminzita non sua. Era di guardia al porto, è stato trascinato in aria per molti metri, sotto gli sguardi sbigottiti di tanti, increduli di raccattarlo vivo. «Ho visto cose che voi umani…», dice, e si capisce che vorrebbe scherzare, ma gli viene come se parlasse sul serio. I guardiani non mi lasciano entrare nemmeno oggi, anzi oggi tanto meno. «Capannoni scoperchiati, un camino della cokeria è crollato, ci sono stati incendi, lamiere divelte e portate a chilometri di distanza, o pericolanti, e chissà  che danni ai tubi, ai cavi». La differenza sono le cose che dicono oggi questi addetti in divisa: le grandi fabbriche stanno spesso a metà  fra caserma e galera, l’Ilva pende verso la galera. Se i padroni e la loro gerarchia colonia-lista, come la chiama Alessandro, di «fiduciari, venuti da fuori» — e ora ritornati al loro fuori — ascoltassero oggi queste loro sentinelle! «Ti vorrei far entrare — mi dice uno — e poi ti vorrei accompagnare negli ospedali, a vedere i bambini… », il resto non lo riferisco.
Oggi sarebbe difficile scommettere dieci lire sulla sopravvivenza dell’Ilva, e una sola lira sulla sua sopravvivenza coi Riva. Non gli rinfacciano il tornado, il tornado è troppo per incolparne qualcuno. Vuol dire che anche gli dei hanno voltato la faccia dagli operai e dalla città  che fu la prediletta. E però, dopo che ciascuno ha ripetuto che «una cosa così non era mai successa», qualcuno ricorda che due anni fa era successo, che il percorso diverso aveva salvato fabbriche e città  dalla violentissima tromba marina: e mi mostrano le immagini sui telefonini. «La seconda volta in due anni, vuol dire che non è una fatalità  unica, che si deve pensare a difendersene. Hai sentito parlare del famoso piano di evacuazione? Be’, noi che siamo nel cuore della mischia, non abbiamo mai fatto nemmeno la mossa di una esercitazione di evacuazione. Figurati i cittadini, i bambini delle scuole».
Ieri una scuola di Statte, vicina alla zona industriale, è stata investita, bambini sono stati feriti. Nella tarda mattinata c’era stato un enorme blocco del traffico in tutte le direzioni, sopportato assai civilmente. Lungo la strada si incontravano camion rovesciati, auto scaraventate sopra altre auto. Operai dell’Ilva, dopo l’evacuazione degli impianti — un’area vasta, ricordate, molto più della città  â€” cercavano di tornarsene a casa, e intanto si gridavano notizie, è lì che ho imparato la formula di “incidente rilevante”. Vuol dire un accidente le cui conseguenze vanno oltre i confini dello stabilimento e investono l’abitato, una specie di Big One tarantino, nel nostro caso; la normativa deve risalire a Seveso. L’ha gridato un tale, «Lasciamo le macchine e andiamocene a piedi, qui si rischia l’Incidente Rilevante». Teniamo a mente le due nozioni: l’Incidente Rilevante, che può esserci, che è stato sfiorato ieri, e il Piano di Evacuazione, che non c’è. E aspettiamo le smentite, che non è stato sfiorato ieri, non seminiamo il panico, e che c’è, il Piano, in qualche cassetto della segreteria universale.
Al rientro in centro, di sera, di nuovo la strada bloccata: stavano rimuovendo l’amianto di un fabbricato smesso e sequestrato. Taranto è sotto sequestro, a volte con facoltà  d’uso: come i caricatori dell’Ilva, anche loro da dodici anni. Finalmente abbiamo attraversato la città  vecchia, il gioiello segreto della città . La notte prima il gio-
vane Angelo Cannata, che è un sindaco “di fatto” di Taranto vecchia, mi aveva guidato nella via Cava, che se non fosse per la monnezza aprirebbe le sue porte dentro sotterranei mirabili, e al palazzo cinquecentesco di San Giuseppe alla Marina, suggestivo come la bellezza quando è malridotta. E’ pericolante, mi ha avvertito. E’ crollato ieri sera: il tornado ha fatto una quantità  di svolte per insinuarsi in quel labirinto di vicoli.
C’era una conferenza indetta dai verdi ieri, da Angelo Bonelli e Alessandro Marescotti, non ho potuto andarci, ero al porto. Però la giornata ha rimescolato con una mano colossale le carte della partita fra ambientalisti e industrialisti, ammesso che le categorie siano queste. La notte prima avevo assistito a un’assemblea dei “Liberi e pensanti” alla porta D dell’Ilva, operai soprattutto, ma anche medici e pasticcere e archeologi, in cui le ragioni della salute e del lavoro venivano trattate con una passione intelligente. Mi ha colpito il modo in cui il loro impegno comune mostra di aver fomentato un’amicizia, che la grande fabbrica ostacola e mortifica. La lotta suscita la solidarietà : qui sembra qualcosa di più intenso, orgoglioso e affettuoso. Già  fra loro era prevalsa l’idea di non andare a Roma, di evitare un impegno rituale, di vittimismo o di disordine pubblico: ieri la trasferta romana è stata disdetta. Resta quel ricongiungimento forzato tra la questione sociale e la questione climatica, per dirla così, fra l’ambiente ravvicinato compromesso dalla mano padronale, e l’ambiente vasto compromesso dalla mano umana.
Veniva davvero da piangere ieri a guardare la devastazione, e confrontarla agli scenari da ordine pubblico cui autorità  competenti riducono i conflitti sociali. Cassonetti rovesciati, roba da ragazzi, a guardare quello spettacolo vacillante e colossale, come nei film sovietici sull’acciaio. Non trovereste un operaio che dica di augurarsi la chiusura dell’Ilva, e però citerò la risposta che mi ha dato l’altra notte Cataldo B.: «Io tiro fuori da qui i mezzi per mantenere la mia famiglia, e mi batto come tutti, ma ti mentirei se non dicessi anche che nel mio intimo desidero con tutta la forza che questa fabbrica scompaia, e con lei questo modo di lavorare e di vivere insieme».
Siccome ieri il vento ha fatto rotolare fino ai miei piedi un casco rosso dell’Ilva personalizzato, come avviene, da una scritta dell’operaio che l’ha perso nella bufera, la ricopio: «Il mondo va a rotoli xché gira al contrario. Qual è il verso giusto? » Glielo restituirò, se mi leggesse; se no, lo tengo come promemoria.


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