Israele non ferma i raid 28 vittime palestinesi

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Ieri pomeriggio festeggiavano nelle strade di Gaza city i miliziani delle «Brigate Ezzedin al Qassam». E Radio al Aqsa, l’emittente di Hamas, mandava in onda brani nazionalisti e religiosi per accompagnare la lettura della notizia del missile M 75 caduto alle porte di Gerusalemme. «Dio è grande, Dio è grande», ripeteva lo speaker in segno di giubilo. «Sappiamo e possiamo sfidare la potenza militare di Israele, non siamo più inferiori», insisteva lo speaker riferendosi alle potenzialità  strategiche del braccio armato di Hamas. A Gerusalemme le sirene d’allarme non suonavano da 21 anni, dalla Guerra del Golfo, quando l’Iraq, sotto attacco americano, lanciò 39 missili verso il territorio israeliano. Facendo danni e nessuna vittima. Quei missili furono però una enorme arma di pressione psicologica, come i razzi che sparano ora i palestinesi. L’M 75 di ieri ha causato panico e sconcerto tra gli israeliani di Gerusalemme e a Tel Aviv dopo un ventennio hanno dovuto riaprire i rifugi pubblici. 
Ebaa e Hussein, due giovani attivisti palestinesi, Radio al Aqsa ieri la seguivano sullo streaming con sentimenti contrastanti. Da un lato la capacità  della «muqawama» (la resistenza) li sorprendeva. Dall’altra sapevano consapevoli che Israele intensificherà  la sua campagna aerea (oltre 500 raid in poco più di 48 ore) e, più di tutto, che scatenerà  l’offensiva di terra. Per il premier israeliano Netanyahu fermare gli attacchi ora, avrebbe il sapore di una sconfitta, sarebbe un riconoscimento delle potenzialità  belliche di Hamas e di altre formazioni armate. Certo non ha ingannato Ebaa e Hussein e nessun altro palestinese la calma relativa che ieri ha regnato per qualche ora. E neppure le dichiarazioni di solidarietà  e di opposizione totale all’attacco israeliano giunte dal presidente egiziano Mohammed Morsi e dal suo premier Hisham Qandil, che ieri ha visitato per un paio d’ore Gaza e incontrato il premier di Hamas, Ismail Haniyeh. 
L’inferno è alle porte di Gaza. L’escalation, innescata dall’assassinio compiuto da Israele del comandante militare di Hamas, Ahmed Jaabari, è solo alla prima fase. Dozzine di mezzi corazzati e migliaia di soldati ieri sera erano ammassati al confine con Gaza. Il ministro della difesa israeliano Ehud Barak, ha ordinato la mobilitazione di altri riservisti oltre ai 16 mila già  richiamati giovedì. Arriveranno ad essere 75 mila tra qualche giorno. I segnali di un attacco devastante ci sono tutti, a cominciare dalle parole del presidente israeliano Shimon Peres che troppo spesso parlando di pace ha annunciato la guerra. «Non è nostra intenzione andare alla guerra e speriamo che questa operazione militare non prenda un minuto di più del necessario», ha detto. La decisione uscirà  da una riunione del gabinetto di sicurezza, ha indicato da parte sua Netanyahu. Il più esplicito è stato Barak, che ha spiegato come sarà  l’offensiva di terra. «Le nostre truppe una volta dentro Gaza dovranno andare casa per casa, forti dell’esperienza che abbiamo fatto in passato», ha spiegato alla televisione Canale 2, in riferimento all’offensiva «Piombo fuso» del 2008. Secondo gli esperti però ci vorranno ancora diversi giorni prima che le forze armate israeliane siano pronte per l’attacco. La mobilitazione comunque è avviata ed è superiore a quella di quattro anni fa, quando furono messi in stato di allerta 20mila riservisti. Oggi Israele renderà  operativa un’altra batteria anti-razzo Iron Dome, sistema che secondo le statistiche dell’esercito avrebbe abbattuto 184 dei circa 500 (550 per altre fonti) razzi e missili sparati dai gruppi armati palestinesi negli ultimi tre giorni.
Messi in ombra dalla retorica dei militari delle due parti, i civili palestinesi si preparano alla nuova guerra, già  esausti dopo anni di resistenza passiva all’embargo e al blocco navale. In strada a Gaza gira pochissima gente, rare sono le automobili. Le famiglie hanno fatto scorta di generi di prima necessità . «Non ho soldi per fare provviste ma una vicina mi ha aiutato, cerchiamo di darci una mano tra di noi», spiega Amira Yazji, giovane madre di quattro figli. Nessuno spera più in una conclusione in tempi stretti della offensiva israeliana. «Ho chiuso il ristorante sulla spiaggia, è troppo pericoloso. Mi aspetto che gli israeliani attacchino di nuovo dal mare e potrebbero persino sbarcare qui», sostiene Maher, proprietario dell’ «Oriente House», uno dei locali di lusso che hanno aperto di recente sul lungomare con l’idea di accogliere non tanto i pochi ricchi di Gaza ma anche uomini d’affari e diplomatici di paesi arabo-islamici, in conseguenza dell’accresciuto status del governo di Hamas sulla scena regionale. Appena qualche settimana fa a Gaza avevano steso il tappeto rosso per accogliere l’Emiro del Qatar, oggi quella visita è solo un pallido ricordo.
Come andranno le cose lo sanno bene i responsabili dell’Unrwa che ieri hanno deciso di trasformare in rifugi per i civili una parte delle scuole dei profughi palestinesi. Era accaduto lo stesso durante «Piombo fuso». Marwan al Qumsan, 52 anni, insegnava arabo proprio in una di quelle scuole, a Jabaliya, la sua città . È stato ucciso due giorni fa da un attacco aereo nella zona di Amoudi. «Le squadre di soccorso hanno dovuto lavorare per oltre un’ora per estrarre il suo corpo dalle macerie. Mio zio era una persona qualsiasi, non aveva fatto male a nessuno», ripete il nipote ai giornalisti. Parole che potrebbero pronunciare i parenti di molte delle vittime civili di questi giorni, «danni collaterali» di attacchi ad edifici che Israele ritiene appartanenti al governo e alla milizia di Hamas. Come i due fratelli Tareq e Odai Nasser, rispettivamente di 16 e 14 anni, uccisi dal missile che ha colpito la loro abitazione. Ieri il totale delle vittime palestinesi è salito a 28 con l’uccisione di un ufficiale di hamas e di tre suoi familiari. Da Ramallah ieri sera riecheggiavano le parole pronunciate in una conferenza stampa dal presidente dell’Anp Abu Mazen. «Gli israeliani hanno un piano per minare il nostro popolo, e per minare le nostre aspirazioni nazionali e la nostra causa». Di fronte a questo piano però il suo partito Fatah e Hamas hanno continuato a litigare per un potere di cartapesta


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