La famiglia Samuni, in fuga dalla guerra

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La via d’attacco non cambia: le truppe che i comandanti stanno ammassando dall’altra parte devono entrare dal valico di Karni e scendere verso la costa per creare postazioni da dove muoversi con incursioni verso le zone più popolate e il centro della città . Passeranno da qui.
Questa volta i Samuni non sono rimasti ad aspettare. Mercoledì scorso un missile ha centrato l’auto di Ahmed Jabari, il capo militare di Hamas, e per Zahwa è stato il segnale: ha radunato i sette figli, le due nuore assieme ai loro figli, ha lasciato Zeitun e si è trasferita dalla madre. Non importa che adesso in tredici condividano sessanta metri quadri, che la verdura nei terreni stia andando a male, che per arrivare a questo appartamento si debba scansare l’acqua che cola sulle scale dai cessi. «Qui è più sicuro, gli israeliani stanno per arrivare come nel 2009. Lo so, lo sento. Allora abbiamo sbagliato — ricorda con un sorriso rassegnato — non pensavamo sarebbero entrati: ed è successo quello che è successo».
Quando Mohammed aveva nove mesi, il padre Attiyah è stato ucciso dai soldati che avevano bussato alla porta di una casa che non c’è più. Adesso sta in piedi nel buio del salotto e ascolta la storia che gli è già  stata raccontata tante volte. Nel 2009 ventinove componenti del clan Samuni sono stati uccisi in un bombardamento, il padre era morto la notte prima, Israele ha chiuso l’inchiesta il maggio scorso senza individuare colpe o colpevoli.
Sei mesi fa i chirurghi hanno estratto le ultime schegge di proiettile d’artiglieria dalla schiena del fratello di 15 anni. Zahwa le conserva nella borsa di pelle nera, spera che in questa nuova guerra che entra dentro Gaza le portino un po’ di fortuna. Si lamenta perché Hamas le ha dato solo quattromila euro come risarcimento, miscela la disperazione con un orgoglio bellicoso. «Non hanno riconosciuto i miei diritti, ma io riconosco il loro di usare i Qassam contro gli israeliani».
Nel vicolo buio rimbombano i botti delle esplosioni. L’aviazione ieri ha colpito centocinquanta obiettivi, anche due palazzi usati dai giornalisti: gli uffici del canale in lingua araba di Russia Today sono stati distrutti con quelli di Al Aqsa, televisione controllata da Hamas. «Abbiamo centrato le antenne e le strutture per le comunicazioni usate dai capi fondamentalisti. La strategia degli estremisti è semplice: usare i civili come scudi umani, sparare dalle aree residenziali, usare le moschee come depositi di armi, nascondersi negli ospedali», replicano i portavoce dell’esercito. Nelle stesse ore l’intelligence si è inserita sulla frequenza 106.7 usata dalla radio locale e ha trasmesso messaggi in arabo per sollecitare gli abitanti a stare lontani dai miliziani: «Stanno giocando con il fuoco e così vi mettono in pericolo».
I raid nel nord della Striscia cercano di colpire le basi nascoste per il lancio dei missili: ieri ne sono stati sparati sessanta, quattro hanno colpito Ashkelon, le sirene sono suonate ancora a Tel Aviv. I morti palestinesi di questi cinque giorni sono arrivati a 71, venticinque solo ieri. Undici — tra loro cinque bambini — sono rimasti sotto le macerie di una palazzina su tre piani bersagliata al tramonto, ci viveva un dirigente incaricato di gestire la protezione per i notabili del movimento. I vicini scavano con le mani per recuperare corpi, le Brigate Ezzedin-Al Qassam, l’esercito di Hamas, minacciano: «Il massacro della famiglia Al Dallou non resterà  impunito».
L’ospedale Shifa è il più grande di Gaza. Le ambulanze vengono circondate da decine di persone che vorrebbero aiutare e invece iniettano caos nella confusione. I feriti più gravi vengono mandati verso il valico di Rafah per essere curati in Egitto, liberano i letti per gli altri che arrivano. «Il pronto soccorso è pieno, la terapia intensiva pure — spiega il dottor Ayman Sahbani —. Sono soprattutto donne e bambini. Prima dell’attacco avevamo scorte per un mese, adesso stanno già  finendo». Israele ha riaperto per poche ore il passaggio di Kerem Shalom e ha permesso a ottanta camion con materiale sanitario e cibo di entrare.
Da Shifa passa veloce anche Ghazi Hamad, il viceministro degli Esteri, uno dei pochi leader a farsi vedere in giro. Era lui che negli ultimi mesi stava mediando una tregua di lungo periodo, faceva da intermediario per Jabari perché il «capo di Stato maggiore» non voleva trattare direttamente con gli israeliani. I contatti sono andati avanti fino a poche ore prima della sua morte, l’omicidio mirato che ha marcato l’inizio del conflitto.
I droni ispezionano le strade e la sabbia della Striscia, i motori emettono il rumore di un tosaerba che non smette mai di triturare. I jet bombardano la base Ansar, sulla costa vicino al porto, gli uomini della sicurezza interna l’hanno già  abbandonata. Una volta apparteneva al Fatah, il partito rivale di Hamas, come tutto qua attorno. La nave di Yasser Arafat sta in secca arrugginita: avrebbe dovuto inaugurare la flotta della Marina militare palestinese, il raìs ci era salito una sola volta dodici anni fa per accendere la fiaccola con il primo combustibile portato in superficie dai test del gruppo britannico Bg. «Questo gas sotto il mare è un dono di Allah al nostro popolo. Fornirà  le fondamenta per la nascita di uno Stato», aveva proclamato il leader scomparso nel 2004.
Da allora Gaza è finita sotto il dominio di Hamas ed è rimasta separata dalla Cisgiordania. Il presidente Abu Mazen torna a parlare di unità  nazionale e questa volta ha deciso di mandare qui Nabil Shaath, uno dei suoi uomini più fidati, per cercare di mediare una tregua, di sfruttare la visita di domani dei ministri degli Esteri della Lega Araba per frenare una possibile invasione israeliana.
I pochi negozi che restano aperti tra i palazzoni nel centro della città  non richiamano i clienti, la gente ha cercato di accumulare il cibo per non doversi esporre fuori di casa. Il governo di guerra vuole evitare che i prezzi impazziscano, «consideriamo un complice dell’aggressore chiunque provi a nascondere le scorte», commenta Taysir Al-Batsh, il capo della polizia, all’agenzia Reuters. L’ottanta per cento della popolazione — calcolano le Nazioni Unite — vive sotto la soglia di povertà , dal 2005 le scarse entrate delle famiglie si sono rimpicciolite ancora di più. Le scuole sono chiuse, i ragazzini giocano davanti a casa, puntano i tubi di plastica verso il cielo, verso i droni che volano troppo alto per vederli.


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