La legge del contrappasso e il premio di consolazione

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Sembra quasi un premio di consolazione. Prima Grillo gli porta via i voti, il monopolio dell’«antipolitica», il primato dell’antiberlusconismo, e poi propone per Di Pietro un posto di prestigio al Quirinale. Una magnanima concessione. Per un protagonista della Seconda Repubblica che mai come in questi giorni appare all’angolo.

La puntata di «Report» che ha macchiato la reputazione del partito di Di Pietro è stata la consacrazione simbolica di un declino. E insieme l’applicazione feroce della legge del contrappasso. L’uomo che ha fatto la propria fortuna politica come fustigatore della corruzione trattato come un leader che gestisce il partito come un affare di famiglia, un’agenzia immobiliare, con un’identificazione eccessiva tra i fondi del partito e la figura del Capo (e dei suoi cari). Non necessariamente, come si dice, di «penalmente rilevante». Ma se avessero trovato Robespierre a gestire il finanziamento pubblico del proprio partito in quel modo, difficilmente avrebbe mantenuto intatto il prestigio di padre di tutte le ghigliottine. Un contrappasso durissimo: vent’anni fa, incalzato dall’interrogatorio martellante dell’allora pubblico ministero Di Pietro, Forlani vide la sua carriera politica finire in tv con una bavetta alla bocca che certificava il rito di degradazione di un politico potente trascinato nel fango. Oggi in tv, a subire l’onta di un personaggio pallido e impaurito, in difesa, in affanno, di fronte alle domande non di un pm in toga, ma di una giornalista, è proprio lui, Antonio Di Pietro. La storia che si rovescia nel suo contrario.
È il rito, il simbolo che conta. Amplificato dalle immagini di «Report», lo scontento della base dell’Italia dei Valori esplode. Quando l’Italia dei valori, con beffardo spirito polemico, veniva chiamata «l’Italia dei valori immobiliari», quella base non esplodeva, e difendeva il capo. Quando moltissimi ex sodali di Di Pietro se ne andavano dal partito tutti indistintamente, da Achille Occhetto a Giulietto Chiesa a Elio Veltri, protestando per la disinvolta e comunque ultrapersonalistica gestione dei soldi del finanziamento pubblico, quella base credeva alla parola del Capo, suffragata anche da sentenze a lui favorevoli, e liquidava quelle proteste come intemperanze di politici delusi. Naturalmente non credeva alle campagne su Di Pietro, isolatissime nel mondo dei media, del Foglio o di giornalisti come Filippo Facci, che mettevano l’accento, al di là  del solito «penalmente rilevante», sulla disinvoltura con cui l’allora magistrato Di Pietro intratteneva rapporti amicali con inquisiti di Tangentopoli a base di prestiti, Mercedes, appartamenti vista Duomo, soldi restituiti nelle scatole di scarpe. Non dava ascolto neanche alle critiche «amiche» di riviste girotondiste e schieratissime con il partito dei giudici come MicroMega quando faceva inchieste imbarazzanti sulla classe dirigente dipietrista specialmente nel Sud e ancora più specialmente in Campania. E considerava solo incidenti di percorso l’affiorare di campioni dell’intransigentismo rivoluzionario come De Gregorio e Scilipoti, in tempi diversi passati con una certa disinvoltura dalla parte di Berlusconi.
Ora è cambiato tutto. La comparsa di Grillo ha sbiadito l’immagine del Di Pietro depositario primo del verbo antiberlusconiano. Di Pietro ha visto stracciare la foto di Vasto (quella di lui con Bersani e Vendola) e non ha più sponde politiche nel centrosinistra che esaltino il suo ruolo, come è accaduto con D’Alema ai tempi dell’elezione del Mugello e con Veltroni che annacquò la «vocazione maggioritaria» del neonato Pd con un’alleanza per le elezioni del 2008. I voti sono passati con il Movimento 5 Stelle e il fatto che l’Italia dei valori abbia usato i finanziamenti pubblici, mentre il ripudio del finanziamento pubblico è il dogma numero uno del catechismo grillista e crea attorno al nuovo movimento quell’aura di purezza del tutto smarrita dalle vicende oramai temporalmente lunghissime del partito di Di Pietro, considerato oramai un partito «come tutti gli altri». La crisi, a questo punto, appare travolgente. E Di Pietro dovrà  davvero far ricorso alla fantasia contadina per poter raddrizzare un trattore andato drammaticamente fuori strada. Al Quirinale? Sembra quasi una presa in giro. Il Di Pietro dei bei tempi avrebbe detto: «cornuto e mazziato». Ma quei tempi non ci sono più.


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