La scommessa di Obama far ripartire il negoziato di pace In prima fila l’Egitto di Morsi

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GERUSALEMME – «Ci sono cittadini israeliani che si aspettano un’azione militare più dura e forse avremo bisogno di farla», dice accigliato Benyamin Netanyahu ai giornalisti convocati poche ore dopo aver accettato la proposta egiziana di fermare la guerra contro Hamas. E non sembra trattarsi soltanto di una minaccia in calce alla tregua, nell’ipotesi di una malaugurata violazione da parte del Movimento islamico. Più realisticamente, il premier israeliano sta semplicemente riferendo ad alta voce un pensiero diffuso nella maggioranza che sostiene il suo governo: Gaza non finirà  mai di rappresentare una minaccia per Israele e prima o poi bisognerà  rimettere i piedi in quella sabbia.
La tregua che mette fine all’operazione “Colonna di nuvole”, nasce dunque con molti “se” e molti “ma”. Bisognerà  vedere nel dettaglio i termini dell’intesa raggiunta al Cairo per capire se può veramente rappresentare un punto di partenza per un vero negoziato in grado di stabilire una pace duratura, o se lo scetticismo di Netanyahu è destinato ad essere confermato dai fatti. Di sicuro, l’operazione “Colonna di nuvole” ha funzionato come un banco di prova per molti protagonisti sulla scena regionale, mettendo in luce una serie di cambiamenti che già  si percepivano.
S’è capito subito che per il presidente Obama spegnere le fiamme della guerra era una condizione irrinunciabile per il futuro del suo nuovo quadriennio. E ieri se n’è avuta conferma. Dopo mesi, anni, di incomprensioni con il premier israeliano, è stato lo stesso Netanyahu a telefonare ad Obama (mai i due leader si sono parlati tanto come in questi ultimi giorni) per comunicargli la decisone di accettare la proposta egiziana. Obama l’ha ringraziato. E questo è un dettaglio rivelatore, di un cambiamento in corso nei rapporti tra i due alleati. Obama avrebbe potuto cogliere l’occasione della guerra di Gaza per saldare i conti con Netanyahu che non ha mai nascosto la sua simpatia per Romney. Invece, il presidente americano non l’ha fatto, preferendo far valere la sua ritrovata leadership quando deciderà  di rilanciare il processo di pace, considerato in Israele morto e sepolto, contro un recalcitrante premier israeliano.
Si vedrà . Di certo, in questo momento l’America fa molto affidamento sull’Egitto del presidente Mohammed Morsi, il quale esce da questa vicenda con la corona del vincitore. Dopo aver ricevuto la telefonata di ringraziamento da Obama, Morsi è stato gratificato da Hillary Clinton con una serie di elogi sperticati, quando la signora della diplomazia americana ha affermato, alla conferenza stampa in cui è stata annunciata la tregua, che il governo egiziano aveva acquisito «responsabilità  e leadership nella regione».
Sicuramente, nel successo di Morsi, ha pesato il comune legame ideologico e religioso tra i Fratelli Musulmani, cui il presidente egiziano appartiene, e i dirigenti di Hamas, il movimento che può essere considerato una “costola” dell’organizzazione islamista egiziana. Ma anche Morsi, stretto tra l’opinione pubblica egiziana solidale con i palestinesi di Gaza e il bisogno di accreditarsi come un interlocutore affidabile presso l’Amministrazione americana, da cui dipende un sostanzioso contributo alle spese militari, pari a un miliardo e 300 milioni di dollari l’anno, aveva fretta di trovare una soluzione alla crisi.
Lo ha saputo fare in prima persona, senza lasciare spazio al premier turco Erdogan che, precipitatosi al Cairo, ha adoperato nei confronti d’Israele parole molto più dure di quelle adoperate da Morsi, né al dinamismo dei paesi del Golfo, e segnatamente dal Qatar che per convincere Hamas a più miti consigli ha fatto leva sui 400 milioni di dollari promessi un paio di settimane fa ai dirigenti di Gaza per finanziare il loro «progetto nazionale».
Ma il Cairo, ha dimostrato di saper giocare un ruolo decisivo, citando ancora Clinton, come si conviene al paese non solo più popolato ma politicamente più prestigioso del Medio Oriente. E non solo, Morsi sembra proporsi oggi come perno di un’alleanza sunnita, composta da Egitto, Giordania, Tunisia, Paesi del Golfo che, in occasione della crisi di Gaza, ha costretto ai margini il fronte sciita guidato dall’Iran (cui non è rimasto che fare appello ai musulmani di mandare armi a Gaza) e composto da Hezbollah, Siria e in parte Iraq. E chissà  che questo non sia già  un test per domani.


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