La violenza sulle donne è un problema degli uomini

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La riflessione che non sia un bel mondo per le donne è ormai condivisa anche da un nutrito gruppo di uomini che ha avviato negli ultimi anni iniziative di sensibilizzazione dirette al mondo maschile, spostando dunque l’attenzione dalle vittime ai carnefici. “Noi no”, la principale compagna di comunicazione mediatica, ha già  ottenuto il sostegno di facce note dello spettacolo e dell’ambiente televisivo con l’intento di creare una maggiore consapevolezza sul fenomeno divulgando dati e informazioni, e al contempo di cancellare ogni idea di complicità  tra la minoranza dei violenti e la maggioranza degli uomini.

Persino la Federcalcio ha aderito alla campagna di sensibilizzazione. Lo slogan “La violenza sulle donne è un problema degli uomini. Insieme possiamo vincere questa partita” è stato veicolato nel corso dell’amichevole Italia-Francia del 14 novembre scorso allo stadio Tardini di Parma, aperto per l’occasione all’accesso gratuito delle donne. Difficilmente l’iniziativa della gratuità  dell’ingresso allo stadio può essere stata intesa quale un’azione di promozione della parità  di genere. Ma più sconcerto può avere determinato la scarsa incisività  dell’appello lanciato dall’attrice Lunetta Savino sulla campagna contro la violenza alle donne di “Se non ora quando”, postillata alla sua chiusura dal telecronista Marco Mazzocchi con un “a nome degli uomini dico agli uomini di non fare gli scemi”. Un intervento piuttosto infelice, che ha indebolito il significato delle parole appena pronunciate, banalizzandone i contenuti. Questi ultimi, al contrario, si basano sui dati raccapriccianti del fenomeno, purtroppo in costante crescita in Italia. Dall’inizio dell’anno sono più di 100 le donne uccise in quanto tali; al femmicidio si aggiungono migliaia di denunce per violenze e per stalking, e le ancor più numerose, e silenziose, richieste di aiuto. Nella scorsa primavera anche Rashida Manjoo, la Special Rapporteur delle Nazioni Unite contro la violenza sulle donne, ha lanciato un severo monito all’Italia per le sue responsabilità  in quanto “femmicidio e femminicidio sono crimini di Stato tollerati dalle pubbliche istituzioni per incapacità  di prevenire, proteggere e tutelare la vita delle donne, che vivono diverse forme di discriminazioni e di violenza durante la loro vita”. Potenziare gli strumenti di intervento contro la violenza sulle donne è un dovere civile e un obbligo internazionale, in osservanza alla normativa a tutela dei diritti della donna.

Che un intervento sulle cause strutturali della disuguaglianza di genere e della discriminazione sia auspicabile tanto dalla società  civile quanto dalle istituzioni è evidente.

Non è infatti un caso che anche il Ministero dell’Istruzione, dell’Università  e della Ricerca in queste settimane abbia inserito nel suo scarno portale un riquadro di riferimento alla Giornata contro la violenza sulle donne, con un comunicato congiunto con il Dipartimento per le Pari Opportunità  della Presidenza del Consiglio dei Ministri e il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali per segnalare le campagne di sensibilizzazione e le iniziative nelle scuole. Si sottintende così il legame inscindibile fra educazione e promozione dell’uguaglianza di genere, indispensabile per eliminare la violenza contro le donne che da tale discriminazione si origina.

Proprio il tentativo di limitare l’educazione alle bambine costituisce una forma di violenza in alcuni Paesi del mondo, perché sottende la costruzione di una società  in cui le donne ricoprono ruoli non paritari, non avendo né le capacità  di abbattere le costruzioni discriminatorie di genere né spesso la consapevolezza delle stesse. Inoltre non di rado sono violente le azioni con cui gli uomini impediscono l’accesso alla scuola alle bambine. È il caso della quattordicenne Malala Yousufzai, ferita gravemente lo scorso 9 ottobre per la sua coraggiosa opposizione nel 2009 al divieto dei talebani di accesso delle bambine a scuola nella valle dello Swat in Pakistan. La sua storia è rimbalzata sui giornali e sulle tv di mezzo mondo, testimoniando ancora una volta la necessità  di opporsi con tenacia all’oscurantismo e alla bieca violenza contro le donne. Ma quanto la logica che sottintende alla vicenda di Malala è diversa da quanto accade quotidianamente nel nostro “primo mondo”?


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