L’Ilva occupata arriva il decreto per salvarla

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Dall’alba di lunedì, i militari della Guardia di Finanza lo hanno cercato ovunque. Ma sapevano già  che non l’avrebbero trovato. Né in casa a Milano. Né altrove in Italia. Fabio Riva, uno dei figli del patron, l’uomo che al telefono declassava a “minchiata” «un paio di tumori in più» per i veleni della sua fabbrica, è fuggito a Miami, negli Stati Uniti. Indeciso – riferiscono in queste ore qualificate fonti investigative – tra una lunga latitanza caraibica in quel di santo Domingo, Repubblica Dominicana, Paese che non riconosce l’estradizione per reati come quelli di cui è accusato (l’associazione per delinquere), e un ritorno “negoziato” in un paese dell’Unione Europea, come vorrebbero i suoi avvocati e come sarà  possibile verificare nelle prossime ore. Lo avevano “perso” due settimane fa, quando all’improvviso aveva lasciato l’Italia diretto in nord Africa. Forse (il sospetto esiste) perché avvisato da qualcuno dei tanti amici che qualcosa bolliva nella pentola dell’inchiesta della Procura di Taranto.
CONTI IN LUSSEMBURGO E NELLA MANICA
Una lunga latitanza, del resto, qualora fosse questa la scelta, non sembra un problema per Fabio Riva. Per le importanti disponibilità  all’estero della famiglia e perché – la Finanza ne è convinta – con Emilio e Nicola detenuti, Fabio è il solo che, in questo momento, può manovrare da libero le leve e i conti della holding di famiglia, la “Riva F.I.R.E. spa”, di cui è vicepresidente e su cui, solo negli ultimi quattro anni, sono stati trasferiti, come ha documentato l’Espresso un mese fa, oltre 200 milioni di euro di profitti dell’Ilva. Le indagini della Finanza hanno individuato nelle ultime settimane nel Lussemburgo e nelle isole del Canale della Manica (Jersey e Guernsey) le due piazze finanziarie off-shore su cui sarebbero depositati buona parte dei capitali trasferiti all’estero dai Riva. E la ricerca, ora, si è fatta in qualche modo ancora più frenetica perché la speranza è di arrivare a quel denaro, che ieri i Verdi hanno chiesto pubblicamente di aggredire con «provvedimenti di sequestro cautelativo in grado di sostenere i costi della bonifica », prima che ci arrivi l’ultimo dei Riva ancora libero.
Anche se, evidentemente, i tempi delle rogatorie non sono quelli di chi di quei conti è titolare.
I SEGRETI DELL’AIA FIRMATA DA CLINI
Le provviste estere della famiglia Riva sono solo uno dei tanti e cruciali tasselli di un mosaico investigativo che intorno alle responsabilità  dei proprietari dello stabilimento Ilva sta cercando di ricostruire nella sua completezza e nel suo doppio livello, locale e nazionale, la rete di complicità  e scambi che ha consentito in 17 anni di massimizzare i profitti (2 miliardi e mezzo di euro sono stati gli utili tra il 2008 e il 2011) sulla pelle di una città  intera. Non a caso, proprio ieri, la Finanza ha acquisito a Bari e a Roma una serie di documenti relativi all’Autorizzazione Integrata Ambientale del 4 agosto 2011 (la penultima in ordine di tempo) con cui il ministero dell’Ambiente di un governo Berlusconi ormai agonizzante consentì allo stabilimento di proseguire la sua produzione inquinante. Un documento con un immediata ricaduta politica, perché firmato, insieme al ministro Prestigiacomo, dall’allora direttore generale del dicastero e oggi ministro Corrado Clini. E ora svelato dalle intercettazioni telefoniche di un anno intero (il 2010) come null’altro che un abito sartoriale cucito dai Riva sul proprio conto-economico costi-benefici.
LE PRESSIONI SUL MINISTERO
In un’informativa al gip Patrizia Todisco, la Procura di Taranto scrive: «Dalle intercettazioni emerge come anche al livello ministeriale fervevano i contatti non proprio istituzionali per ammorbidire alcuni componenti della Commissione incaricata di istruire l’Aia 2011. Il fatto che la Commissione debba essere pilotata e che comunque sia stata in qualche modo avvicinata, si rileva anche da una conversazione in cui l’avvocato Perli di Milano, legale esterno dell’Ilva, aggiorna Fabio Riva dei rapporti avuti con l’avvocato Luigi Pelaggi (capo dipartimento del Ministero dell’Ambiente). Da quanto riferisce Perli, si rileva che Pelaggi abbia dato precise disposizioni all’ingegner Dario Ticali, presidente della Commissione, su come procedere». A Roma, dunque, il ministero dell’Ambiente è cosa dei Riva. Come del resto, sembra assicurare proprio il loro uomo, l’avvocato Perli: «Pelaggi mi ha riferito che la Commissione ha accettato il 90 per cento delle nostre osservazioni e la visita allo stabilimento riguarda solo il 10 per cento. Non avremo sorprese ». Uno scherzo, insomma.
DON MARCO PIà™ 4
Nell’indagine, naturalmente, frullano anche figure del teatro locale. È di ieri la conferma dell’iscrizione al registro degli indagati d i 5 persone tra cui don Marco Gerardo, il distratto segretario dell’ex Arcivescovo di Taranto che metteva al pizzo i contanti che arrivavano dalla cassa del-l’Ilva come “opere di bene” salvo, di fronte ai pm, confondersi con la memoria su date e incontri. Con lui, iscritti anche il sindaco di Taranto Ippazio Stefano, e un ispettore della Digos che aggiornava Archinà , responsabile delle relazioni esterne del-l’Ilva, del calendario interrogatori in Procura.


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