LO SCIOPERO GLOBAL

by Sergio Segio | 14 Novembre 2012 7:20

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L’ha convocata la Confederazione europea dei sindacati, Ces — l’avevate sentita nominare? — l’hanno promossa soprattutto i sindacati iberici. Scioperano Spagna e Portogallo, dove la signora Merkel ha appena ricevuto la stessa accoglienza che ad Atene, compresi gli sgradevoli baffetti. Scioperano Grecia, dove lo sciopero è pressoché generale in permanenza, Cipro e Malta. In Italia lo sciopero è indetto per 4 ore dalla Cgil (per l’intera giornata in alcune zone e categorie, e per la Fiom che manifesta a Pomigliano) e per 8 dai Cobas. Troppo per alcuni, troppo poco per altri, questo 14 novembre è in realtà  una data importante. Che l’internazionalismo del lavoro (di chi ce l’ha e di chi non ce l’ha) si sia indebolito fino a scomparire mentre montava la globalizzazione, che è l’internazionalismo della finanza, è un amaro paradosso. Lo misuriamo nella cronaca quotidiana: la Ford che chiude a Genk, Belgio (4.300 operai, 10mila con l’indotto) e a Southampton, e promette di trasferire una parte della produzione a Valencia; la Fiat che gioca contro Mirafiori e Pomigliano, la Polonia e gli operai serbi di Kragujevac a 280 euro mensili e 12 ore a turno… Bene: è la prima volta che l’organismo che rappresenta i sindacati europei, benché privo di poteri “sovrani”, indice una mobilitazione comune al continente. Il significato simbolico dell’iniziativa prevale senz’altro sulla sua efficacia materiale: ma il valore simbolico è alto, dopo che così a lungo si è anteposta, alla solidarietà  orizzontale del lavoro, la dipendenza del lavoro (compreso quello precario, e quello che non c’è) dai governi nazionali. Istituzioni internazionali, la troika, a disporre, e governi nazionali e popoli rinazionalizzati a eseguire: era il tempo delle distanze dal più vicino di cordata, l’Italia non è la Grecia, la Germania non è la Francia, esorcismi pronunciati dai capi e fatti propri rabbiosamente dai sudditi. Ancora oggi, fra i lavoratori dei paesi “forti”, un riflesso naziona-lista, quando non xenofobo, è più pesante che fra molti dirigenti sindacali pur proverbialmente “responsabili”. In un importante convegno europeo di Firenze a fine ottobre il capo del Dgb, il più grande sindacato europeo, Michael Sommer, ha detto: «Se l’Europa non sarà  sociale e democratica, se non salverà  il suo modello di sviluppo sociale, si distruggerà  da se stessa. Spesso da noi lavoratori e sindacati si sentono al sicuro e rischiano atteggiamenti xenofobi in difesa dei propri interessi, ma se non salviamo l’idea di un’Europa comune, una volta persa l’idea perderebbero i lavoratori ». Fino alle decine di manifestazioni indette per oggi in tutta Europa (una nazionale a Londra; a Bruxelles Barroso riceverà  il premio Nobel per l’austerità …), non era capitato di accorgersi che uno sciopero generale europeo farebbe i conti con legislazioni nazionali che prevedono, per esempio, una complicata trafila di autorizzazioni e referendum come in Germania, o veri divieti in altri paesi.
Certo, lo sciopero “generale” può apparire un’arma spuntata dentro una recessione così profonda, e un ennesimo “privilegio” di chi ha un lavoro. Al contrario, lo sciopero degli occupati (che sono ormai lontani, pubblici o privati, dal privilegio di “garantiti”) è un’occasione di mobilitazione comune per tutti quelli che l’austerità  vigente colpisce alla cieca, a cominciare dai giovani e dal mondo della scuola, e che sentono nelle misure imposte non un purgatorio da attraversare per tornare a vedere le stelle, ma uno sprofondamento senza ritorno. Le opinioni sui modi di governare finanza ed economia — o di non governarle, lasciando fare a loro — sono contrastanti e anche opposte: ma occorre almeno ammettere che un giorno forse si guarderà  a questa lunga rincorsa dal debito al debito e alla terra bruciata delle risorse, come a una pazzia. Non ha senso una solidarietà  internazionale? La sostituisce, non so, un incontro Monti-Samaras, o Monti-Rajoy, in cui recitare la gara al rinvio del “salvataggio”? Le emergenze esistono davvero, e le metafore anche (benché vi si ecceda volentieri: “guerra”, “abisso”, “naufragio” — e che cosa si farà  davvero in una vera guerra, un vero abisso?). Ma le emergenze non possono essere perenni, in modo da rendere inesorabile una scelta politica, né essere trattate a lungo con misure che pregiudichino il futuro. Mettiamo, per capirci e anche per divertirci, che Berlusconi sia il comandante Schettino, e che Monti sia quello che gli dice: «Torni a bordo, cazzo!» — resta pur sempre la questione delle rotte delle navi, della loro stazza, eccetera. «Guardate da dove vengono Monti, Draghi, Papademos», diceva dal palco fiorentino quell’autorevole capo del sindacato tedesco, e non voleva alludere — spero, almeno — a una qualche cospirazione di banchieri, ma alla loro inesperienza di una parte colossale del mondo, quella che sta sotto, e non si vede senza andare sotto. Mi ha colpito un’affinità  dei due incontri successivi, il convegno europeo della Cgil e quello dei movimenti a dieci anni dal Social Forum che portò a Firenze un milione di giovani. La Tobin tax è diventata la bandiera di undici Stati europei. Le proposte sul debito si fanno dettagliate oltre che eque. La considerazione che l’Europa è ancora il più forte mercato interno del mondo, e che la sua amputazione progressiva, dalla Grecia in su, non risparmierebbe il suo nord, è più netta e diffusa: è naturale che avvenga nei sindacati prima che nei partiti. Una solidarietà  internazionale non può fare a meno del suo connotato sociale — i poveri, gli impoveriti, la disuguaglianza oltraggiosa — né di quello civile — i modi di vita. L’austerità  è corta di vista, e insieme estremista e conservatrice: fa molto male, e non cambia le cose. È a suo modo un piccolo cabotaggio. Col piccolo cabotaggio l’Europa muore. È ridicola la paura di perdere il contatto con il nord d’Europa stringendo quello fra i paesi mediterranei. Non solo per la vicinanza dei problemi e dunque delle soluzioni: come, proprio in questi giorni, gli espropri bancari delle case ipotecate in Spagna e Grecia. O le sciagure rincarate dei migranti che premono su Grecia Italia e Spagna, e l’emigrazione rinnovata di europei del sud verso il nord. L’infezione xenofoba e populista non è solo affare di Grecia o Ungheria, anche di Finlandia e Svezia (dove oggi si sciopera nelle aziende multinazionali). Può darsi che fabbriche delocalizzate si rilocalizzino, e migranti di fuori Europa se ne tornino a casa loro (i tre quarti degli ecuadoriani, in Spagna, dichiarano di voler rimpatriare). Sarà  il risultato del peggioramento materiale e di diritti del lavoro in Europa, e, voglia il cielo, del miglioramento fuori d’Europa: non basterà  comunque a compensare gli arrivi dal mondo delle guerre e della fame. Ma senza un internazionalismo sindacale, e politico e civile, il nostro peggioramento sarà  molto peggiore e più rapido, e il miglioramento altrui sarà  molto più lento e perseguitato.

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