L’ultimo mistero di Arafat

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RAMALLAH. Una bella luce autunnale filtra dalle grandi vetrate del Mausoleo di Yasser Arafat. Una corona di fiori poggiata a terra davanti alla semplice lastra di marmo che copre le spoglie del raìs palestinese, diffonde un odore dolciastro che avvolge l’aria dentro questo grande cubo di vetro e cemento, essenziale, senza nessun decoro. Fa talmente caldo che i due soldati della Guardia d’onore palestinese si alzano e si infilano il cappello solo quando entrano i visitatori. Sotto questa la lapide con delle semplici iscrizioni in arabo, che turisti giapponesi ignari fotografano con accanimento anche stamattina, si potrebbe nascondere uno dei grandi misteri del Medio Oriente, terra di complotti e tradimenti più d’ogni altra. Otto anni dopo la sua morte in un ospedale militare di Parigi per una malattia non diagnosticabile, i misteri e i dubbi sulla fine del presidente palestinese tornano a galla, trascinati dalle rivelazioni di Al Jazeera di questa estate sul suo avvelenamento con il polonio 210.
Ma chi si aspettava che il mistero che avvolge la morte di Arafat si dipanasse con l’apertura della sua tomba il prossimo 26 novembre rischia di restare deluso. Il giallo sulla malattia che uccise nel 2004 l’anziano raìs in meno di un mese potrebbe restare, senza una risposta certa, senza nessuna verità . Rischia di rientrare nella vasta categoria dei misteri mediorientali destinati a rimanere tali, una spy-story senza nessuna “pistola fumante”.
Da giorni sono già  a Ramallah due esperti dell’Istitut de Radiophysique di Losanna, il laboratorio svizzero presso il quale la vedova di Yasser Arafat ha fatto recapitare alcuni effetti personali del raìs — la sua kefia, lo spazzolino da denti e un pigiama — per le analisi che poi hanno rivelato tracce evidenti di polonio 210; la stessa sostanza con la quale venne avvelenato a Londra l’ex spia russa Aleksandr Litvinienko nel 2006.
Arriveranno invece a fine settimana gli inquirenti francesi — Suha, la vedova è cittadina francese ed è lei ad aver sporto denuncia — incaricati dell’inchiesta. L’Anp e il presidente Abu Mazen hanno già  annunciato a luglio che nessuna difficoltà  sarebbe stata posta ad una eventuale esumazione della salma. Ma l’operazione, prevista per il prossimo 26 novembre, potrebbe slittare. Perché l’Anp, spiega a Repubblica uno dei funzionari palestinesi coinvolti nel caso, «vuole prima di tutto la stesura di un protocollo di accordo con la giustizia francese» e poi i francesi, per ora, hanno respinto l’ipotesi di una inchiesta congiunta con la sicurezza palestinese. Dopo aver sbandierato per mesi che lo zio Yasser era stato avvelenato, adesso anche il nipote Nasser Al Qidwa — già  ambasciatore palestinese all’Onu — si dice contrario all’apertura della tomba per diverse ragioni, non ultima quella che dopo anni di interramento le tracce potrebbero non dare più la certezza che Yasser Arafat è stato avvelenato con il polonio. «L’apertura del Mausoleo profanerebbe il carattere simbolico di Yasser Arafat», dice Al Qidwa, «e poi l’inchiesta deve essere congiunta, un’inchiesta fatta da un paese straniero sulla morte del nostro presidente sarebbe una sorta di attentato alla sovranità  palestinese ». Misteri indecifrabili della Palestina, ciò che solo 4 mesi fa era di fondamentale importanza accertare, adesso diventa una questione di protocollo.
Certo la tesi dell’avvelenamento è molto seducente per i palestinesi e l’uomo della strada a Ramallah, a Jenin, a Hebron ha già  scelto: il 72% è convinto che Arafat sia stato assassinato e che dietro quella misteriosa malattia che l’ha ucciso in 4 settimane ci sia la mano di Israele. Eppure nelle cento pagine della cartella clinica del paziente Etienne Louvet — nome con il quale Arafat venne registrato al suo arrivo all’ospedale militare di Percy a Parigi il 29 ottobre — ci sono analisi di ogni genere. Nelle carte i medici citano i nomi di diversi veleni che cercarono di individuare nel sangue, ma senza esito. Gli esami furono ripetuti anche presso il laboratorio
della polizia scientifica di Parigi e in un altro ospedale militare. Ma nessuno pensò a un avvelenamento con altre sostanze, come appunto il polonio, isotopo che non emette radiazioni gamma — assorbite dalla pelle — ma solo particelle alfa, incapaci di penetrare la pelle umana: quindi se Arafat è stato avvelenato col polonio lo ha dovuto ingerire con una bibita o con un alimento.
La tesi dell’avvelenamento e del coinvolgimento di qualche suo servizio segreto, è seccamente smentita da Israele. Dice Avi Dichter, allora capo dello Shin Bet, che «c’era una esplicita richiesta degli Stati Uniti di non eliminare Arafat». E poi la tesi dell’avvelenamento da polonio per molti esperti israeliani suscita molti dubbi. Il professor Ely Karmon — cattedra al Centro studi strategici interdisciplinari dell’Università  di Herzilya — prova a metterli in fila. «Il polonio ha un tempo di dimezzamento di 138 giorni, cioè metà  della sostanza decade ogni 4 mesi mezzo, e il livelli riscontrati sui vestiti di Arafat erano molto elevati, tali che all’epoca avrebbero dovuto contaminare tutto il suo entourage, i medici, gli infermieri che l’hanno curato, i locali dove ha soggiornato». L’unica spiegazione per Karmon è che “il materiale”, cioè il polonio 210, sia stato messo «recentemente» negli effetti del raìs palestinese.
Effettivamente su dove sia stati questi “effetti personali” fino alla passata estate, quando vengono portati nei laboratori di uno specialissimo istituto di ricerca svizzero, nessuno è in grado di dirlo. Così come resta un mistero il cambiamento di atteggiamento di Suha Arafat, che a Parigi subito la morte del raìs si oppose all’autopsia e adesso — sostenuta da Al Jazeera che sta finanziando le ricerche — 8 anni dopo chiede di riaprire la sua tomba.
Lo scetticismo sul polonio domina anche il corridoio del secondo piano alla Muqata, dove c’è lo studio del presidente Abu Mazen. Le relazioni fra l’Anp e la signora Suha Tawil sono pessime. L’affetto che circonda ancora la figura del leader palestinese non si estende alla sua vedova, definita spregiudicata, avida e anche di dubbia morale dopo la morte del raìs.
E poi c’è ancora aperta la questione dei soldi, milioni e milioni di dollari in contanti e titoli esteri al portatore scomparsi dopo la morte di Arafat a cui la polizia palestinese da la caccia, sospettando un ruolo attivo della signora.
Ma il dubbio che dietro quel rapido degradamento delle condizioni fisiche di Arafat ci stato un qualche tipo di veleno per i palestinesi resta. A Ramallah ricordano che anche contro Khaled Meshaal a Amman nel 1994 venne spruzzato per la strada un veleno — da due agenti del Mossad poi arrestati — che lo stava uccidendo, e che i medici giordani non riuscirono mai a identificare. Lo scambio fra le spie arrestate e l’antidoto salvò la vita al leader di Hamas. Secondo il professor Marcel Francis Kahn, eminente accademico francese che ha studiato il “dossier Arafat”, l’ipotesi del polonio non regge: «L’avvelenamento da materiale radioattivo non dà  i sintomi manifestati da Arafat; il suo stato di malattia si adattava bene invece all’avvelenamento da tossine fungine, magari geneticamente modificate». Maneggiare la tossina velenosa di un fungo è più facile che non mettere le mani su una sostanza come il polonio.
Naturalmente la tossina deve poi arrivare attraverso gli alimenti o l’acqua fin dentro la Muqata; molti altri leader arabi — tuttora — dispongono nella loro cerchia di sicurezza dell’assaggiatore per cibi e bevande, ma non Arafat che pure era già  sfuggito a 7 attentati. Il raìs palestinese non beveva, non fumava, mangiava pochissimo e rifiutava il cibo cucinato nella mensa della Muqata. Per questo una volta al giorno due suoi bodyguards andavano a prendere il kebab in un popolare ristorante di Ramallah. Una debolezza di gola però Arafat l’aveva: per la cioccolata e i marron glaces. E le scatole che gli venivano portate da mezzo mondo, le nascondeva nei cassetti nella scrivania alla Muqata.
Il mistero sulla morte di Arafat è davvero lontano dall’essere risolto. Il generale Tawfik Tirawi, capo dei servizi segreti palestinesi e della commissione d’inchiesta che ha indagato in questi anni, dice: «Siamo certi che nessuna mano palestinese è coinvolta nella morte del presidente». Forse. Ma certo anche a queste latitudini “la verità  non è mai pura e quasi mai semplice”.


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